Il muro del debito (Alberto Bisin)

Dati dell’Osservatorio nazionale federconsumatori riportano una caduta delle spese natalizie dell`ordine del dieci per cento rispetto alle previsioni. Si dirà che questi sono gli effetti della manovra di fine anno. Vero.

Ma questo non significa che esistesse un’altra manovra possibile per scongiurare effetti recessivi. Per varie ragioni, da questa estate gli investitori sui mercati dei titoli internazionali ci stanno costringendo ad un rientro dal debito molto più rapido del previsto. Molto più rapido rispetto a quello implicito nei piani di imposizione fiscale e spesa pubblica contenuti nella finanziaria.

Questa accelerazione del rientro richiede maggiori tasse e/o minore spesa a breve e a medio termine. Richiede cioè una riduzione della ricchezza attesa dei contribuenti, a cui essi reagiscono, come da manuale, con una riduzione dei consumi.

Una naturale interpretazione dei fatti è la seguente: le famiglie italiane hanno consumato (o meglio, hanno permesso che il settore pubblico consumasse) per anni più di quanto esse non potessero permettersi, indebitandosi; al momento di ripagare i debiti, quindi, sono costrette a ridurre i consumi e a risparmiare.

Per rientrare dal debito, quindi, una recessione sarebbe allo stato delle cose, inevitabile. La manovra di fine anno, anche se fosse stata meglio congegnata, composta cioè più da tagli di spesa e meno dan uove imposte, non avrebbe potuto compiere miracoli: da anni di spesa eccessiva si esce con minore spesa.

Fortuna che la spesa pubblica è per molto tempo stata compensata da un solido risparmio privato, altrimenti la necessaria correzione nei consumi sarebbe stata anche più elevata.

Ma è questa l’interpretazione dei fatti corretta? Hanno davvero vissuto sopra ai propri mezzi le famiglie italiane, godendo di una poco responsabile spesa pubblica? Non vi è dubbio che la rapida e irresponsabile accumulazione del debito, da Bettino Craxi alla Seconda Repubblica, abbia finanziato spesa pubblica, non solo nella “Milano da bere”. E non vi è alcun dubbio che, dopo l’entrata nell`euro, allorché i mercati hanno concesso alla finanza pubblica tassi estremamente convenienti, il Paese abbia perso una grande occasione per compiere una buona parte del rientro dal debito.

In questo periodo, la situazione economica del paese non era affatto favorevole, certo non tale da giustificare crescenti livelli di spesa pubblica. La produttività totale dei fattori, la misura dello stato generale dei fondamentali economici di un paese preferita dagli economisti, è scesa in Italia dal 1995 al 2008 in media del 0,22% l’anno, mentre è cresciuta in Germania e Francia dello 0,5% l’anno, e ancor più negli Stati Uniti. In queste condizioni, anche quella minima crescita del Pil di cui l’Italia ha goduto in questo periodo è stata in parte drogata dalla spesa pubblica a debito.

In queste condizioni, quindi, il rientro dal debito non può che avvenire attraverso una riduzione dei consumi. Ma (queste condizioni non sono affatto immutabili.

Nel medio periodo la capacità di un paese di crescere, e quindi di ripagare il debito senza contrarre drasticamente i consumi, dipende essenzialmente proprio dalla crescita della produttività totale dei fattori, cioè dalla capacità del sistema economico di produrre reddito, per dato impiego dei fattori (per dati capitale e lavoro).

Nel breve periodo invece si può crescere anche aumentando l`utilizzo dei fattori, cioè lavorando di più e investendo maggiore capitale. Ottenere maggiore lavoro e investimenti oggi in Italia è possibile solo attraverso una sostanziale riduzione delle tasse su persone fisiche e imprese.

Anche il lento ma progressivo aumento dell`occupazione femminile richiede interventi in questa direzione. Naturalmente, data la situazione dei conti pubblici, alla riduzione del carico fiscale non possono che far da contraltare estesi tagli della spesa pubblica, che però devono incidere su quella parte della spesa pubblica che risulti particolarmente inefficiente, così da lasciare spazi di crescita del pro dotto interno.

Un ritorno alla crescita della produttività totale dei fattori richiede invece interventi in profondità sul mercato del lavoro, sul mercato dei capitali, sui servizi pubblici fondamentali (giustizia, istruzione, sanità, eccetera), su quelli privati, soprattutto le professioni, sulle infrastrutture.

Gli interventi sui mercati e sulle professioni devono andare nella direzione di liberare risorse garantendo maggiore competitività.

Mentre gli interventi sui servizi pubblici devono garantire incrementi di produttività (e devono farlo liberando risorse utilizzate con scarsa efficienza a causa del vincolo di bilancio).

Tutto questo è possibile, perché ampi sono gli spazi di intervento in Italia. Ancora molto limitata è infatti la competitività del settore privato; basti pensare al mercato del credito e alle professioni. Molto ridotta è anche la produttività del settore pubblico, a fronte di una spesa molto elevata, soprattutto al Sud; si pensi alla giustizia civile e alla scuola, ma anche alla politica locale, alle partecipate pub bliche, alla sanità e così via.

Da “LA REPUBBLICA” di martedì 27 dicembre 2011

Dopo i cappelletti e una fetta di zampone…

regali-di-natale.jpgDopo i cappelletti e una fetta di zampone, un bicchiere di Sangiovese e uno di passito mi sono assopito. Il sonno epatico genera mostri. Ero da solo in una grande piazza e andavo rimuginando una cosa del genere:

 

Ebbene sì, lo confesso, sono un nemico dell’economia, un sabotatore della crescita, un oscuro figuro che vive e trama nell’ombra cospirando contro sua maestà il PIL (Prodotto inutile ladrocinio). Non cambio l’auto da quattordici (14) anni, porto il mio giaccone da 9, un paio di scarpe mi dura 4 anni. Porto ancora l’abito di nozze del 1988 e comunque ho l’armadio pieno ogni oltre mia speranza di vita. E vivo bene.

Mi piace passare per le vie del centro per accorgermi di quanta roba io NON abbia bisogno, guardo le vetrine e mi sorprendo a chiedermi: se in cento metri ci sono 6 negozi di scarpe cosa vuol dire? O che per i reggiani è iniziata la mutazione verso la forma-millepiedi oppure…

Sarà l’età o l’inizio del definitivo rincoglionimento ma ho anche superato la fase legata al potere consolatorio dell’acquisto (o quasi), al massimo, al colmo della depressione, vado alla Buffetti e mi compro matite, gomme e cancelleria varia. Poco, troppo poco per far ripartire l’economia. Lo so, dovrei far di più. Grazie ai furti subiti (3 in 2 anni) ho finanziato l’industria dei velocipedi. Ma non basta. Compro libri (sì, ho questa orrenda abitudine) ma così lo spread non cala. Quando cambio il mac lo prendo a rate e poi questo succede ogni cinque anni! Insomma una vergogna.

La vigilia di Natale e feste equipollenti sono preso dallo scompiglio: tutti corrono a comprare, pacchettini come piovesse e io? Niente. Mi sento un “diverso”, un pinguino all’equatore, un nero ad un congresso del KuKluxKlan. Mi chiedo se i miei figli non porteranno questo trauma per decenni, poi mi accorgo che loro sono come me. Doppio complesso di colpa! Forse li ho già rovinati, ho compromesso il loro futuro di consumatori, ne ho fatto dei “diversi”?

Domanda inutile e futile (e retorica): ma non sarà che questa crescita sia fantozzianamente “una boiata pazzesca”? Domanda retorica perché tutti sappiamo la risposta, ben prima del buon Latouche. Il problema è, per dirla con il poeta di Pavana, che “bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà”. Immagino che rinunciare al viaggio sul Mar Rosso sia dura e non avere il ventottesimo paio di scarpe possa rappresentare un dramma personale, ma vi assicuro che è molto più agevole rinunciare a ciò che non si è mai avuto/fatto/comprato. Semplicemente perché è/era inutile e “ciò che è inutile è dannoso” (M.Beuttler). Adesso la crisi, lo spread, i bund, ci stanno poco delicatamente informando di ciò che sapevamo già. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Abbiamo fatto della “Milano da bere” il nostro orizzonte, degno di un macaco ubriaco; anche a sinistra (o insomma quella cosa lì) abbiamo scambiato il consumo per il lavoro come bene primario, convinti che la giostra avrebbe girato all’infinito, dando anche a noi un pezzetto di gioia, di Mar Rosso. Abbiamo pensato che la soluzione a tutto sarebbe stato il mercato e la globalizzazione e che accumulare cose inutili ci avrebbe dato la felicità.

Ci siamo sbagliati, ma lo abbiamo capito? Leggo notizie terrificanti sulla nostra cara Fondazione bancaria che ha visto calare il valore delle sue azioni del 90%. Roba da assalto ai forni, da suicidi giù dalla Torre del Bordello. Invece nulla. Ma chi la gestiva quella Fondazione, chi li aveva scelti quei geni del Mònopoli? A far simili danni bastavo anch’io e sarei costato molto meno.”

Poi mi sono svegliato. Che sogno, che incubo! Poi leggo che il calo previsto dei prossimi saldi sarà del 30%, per Natale si sono spesi 400 milioni in meno, compresi i miei 50 euro, dovrei sentirmi preoccupato? E perché?

Ma si sa non faccio testo, a stento rappresento me stesso, figuriamoci una città, un paese, il mondo. In fondo sono un (mezzo) montanaro venuto giù con l’ultima piena, felice di starsene sugli spalti di Fortezza Bastiani a guardare le carovane passare giù in fondo alla valle.

Ricostruire la politica (Guido Crainz)

Appena l’emergenza più drammatica si è placata, i partiti hanno rimosso un paradosso inquietante: ancora una volta nel giro di pochi anni il nostro Paese sembra capace di esprimere governi di qualità, capaci di operare quando la politica viene travolta dalla crisi.

Cosi fu fra il 1992 e il 1994 quando, in condizioni difficilissime, Amato e Ciampi avviarono il risanamento proseguito poi dal primo governo Prodi: cioè dal governo di centrosinistra della “seconda Repubblica” che è stato meno prigioniero dei partiti. Nel 1992 il sistema politico crollò all’improvviso, oggi è giunta alle estreme conseguenze una corrosione del centrodestra che ha lasciato solo macerie e che si è svolta nella sostanziale assenza di un’opposizione credibile, capace di idee e progetti alternativi.

Oggi come allora nel momento della verità i partiti sono stati più un peso che una risorsa, più un intralcio che uno stimolo.

È un nodo centrale del dramma di oggi. Per questa via si è lacerato sempre più, lo ha sottolineato benissimo Gustavo Zagrebelski, quel rapporto essenziale fra società e stato che è compito dei partiti garantire.

Siamo giunti cioè al punto estremo di crisi della democrazia: di questo si tratta, ed è inutile nasconderselo. È significativo il ruolo costituzionalmente ineccepibile e al tempo stesso provvidenziale svolto negli ultimi vent`anni da tre capi dello Stato -Scalfaro, Ciampi e Napolitano – che hanno partecipato alla fondazione della Repubblica e sono felicissima espressione di quel clima, di quello spirito. Sono poi dei “non politici” di assoluta qualità a dare prova di uno spirito di servizio che dovrebbe essere il segno distintivo più nobile della politica. Una politica che sta bruciando quel che rimaneva della propria credibilità continuando a ignorare l’urgenza di riformare radicalmente se stessa, il proprio modo di essere e le proprie regole. E difendendo invece nella maniera più assurda i propri privilegi, fino al colpo di mano alla Regione Lazio e a tutte le vicende che variamente ruotano attorno ai vitalizi.

Siamo di fronte alla necessità di ricostruire non solo un sistema politico ma anche un Paese che appare profondamente smarrito e che è chiamato a sacrifici pesantissimi. Anche per proprie colpe: in passato è stato troppo pronto a rimuovere le proprie responsabilità. A dimenticare il contributo direttamente o indirettamente dato all`aprirsi delle voragini, con pesanti spinte corporative e corpose inosservanze degli obblighi civici. Così fu negli anni Ottanta: di queste pessime stoffe era intessuto il sostegno al pentapartito che celebrava allora i suoi trionfi e che ci guidò poi con spensierato ottimismo sin sul’orlo dell’abisso. La barca va, si diceva: fino al naufragio.

Così è stato anche nella stagione berlusconiana, e nessuno può rispolverare oggi il mito di una società civile interamente sana contrapposta a un sistema politico corrotto. Sembra semmai più adeguata una vignetta di Altan di qualche tempo fa: “Il Paese avrebbe bisogno di riforme… ma anche le riforme avrebbero bisogno di un Paese”.

Oggi siamo costretti di nuovo a “guardarci dentro”, ad interrogarci sul nostro passato e sul nostro futuro. Il centrosinistra deve spiegare in primo luogo a se stesso perché nel crollo della “prima repubblica” mancò l`occasione di proporre modelli e pratiche di buona politica.

E perché affossò poi rapidamente il primo tentativo di Prodi di andare in quella direzione, lasciando così via libera al consolidarsi del populismo e dell’antipolitica. Perché, anche, è diventato progressivamente preda di una opaca afasia.

È altrettanto importante il ripensamento che può coinvolgere quell`area moderata spesso al di fuori o ai margini delle organizzazioni politiche che non ha seguito fino in fondo la deriva berlusconiana: perché è così difficile nel nostro Paese la nascita di una destra normale? Ce ne sono finalmente le condizioni? Questo sarebbe un importantissimo elemento di svolta.

Le riflessioni delle forze politiche di entrambi gli schieramenti possono oggi essere favorite dalla qualità stessa del governo che è stato messo in campo. Essa ha fatto rapidamente impallidire tutte le ipotesi sul “dopo Berlusconi” che erano state avanzate in precedenza: sia quelle che sapevano di “conservazione” sia quelle che si presentavano con il volto dell`innovazione. Oggi ci appaiono tutte obsolete, sanno di antico e di inadeguato. Ed è sempre la qualità di questo governo a rendere ancor più stridenti le insufficienze dei partiti e le loro più estreme manifestazioni di irresponsabilità. Su questo terreno la Lega ha sbaragliato ogni suo precedente record ma la demagogia e l’improntitudine, dopo anni e anni di governo, non sembrano più farle guadagnare consensi. Se così continuerà ad essere, sarà un ottimo segnale. Non andrebbero neppure commentate poi le sortite di Berlusconi, primo responsabile del disastro ma pronto a far cadere il governo appena i sondaggi gli tornassero favorevoli: eloquente conferma di un insanabile conflitto con il bene comune.

La rifondazione di una classe dirigente sulla base della competenza, del rigore e dello spirito di servizio è dunque obbligatoria ed è un processo da avviare subito: altrimenti al voto del 2013 si giungerà con inquietanti incognite. Senza quest`inversione di tendenza, senza il contributo attivo della politica sarà molto difficile ricostruire l`etica collettiva, il senso di una comunità.

Sono straordinariamente importanti al tempo stesso i segnali che verranno dal governo: la difesa intransigente di equità sociale e diritti, merito e trasparenza sono il motore indispensabile e insostituibile di una Ricostruzione.

In un Paese smarrito ma ancora capace di uscire dalle derive di questi anni le indicazioni di futuro sono essenziali: contribuiscono in modo decisivo alla capacità vitale di una nazione, alla sua possibilità di ritornare protagonista. Questo governo ha tutte le qualità per mandare i segnali giusti, ed è in realtà l’ultima occasione per invertire la rotta. Per questo è giusto chiederglielo con forza.

La Repubblica, 23.12.2011

Cose che ho imparato con la crisi..

files.jpgPer non meritare davvero la fama di “nemico del popolo” per le mie ultime riflessioni in tema sindacale, lascio la contemplazione di Cima 18 per dire che anche questa crisi, in fondo, qualcosa di buono l’ha portato anche a me. Del resto i nostri antichi non ci ricordavano che “ex malo bonum”? Intanto la crisi ha spazzato via il Circo che ci ha governato per 3 anni. Se qualcuno ancora non gradisse il Governo Monti e i suoi noiosi e grigi professori, farò solo tre nomi a caso: Calderoli-Gelmini-Brambilla. E il resto è silenzio.

Ma questa crisi mi ha anche offerto un’altra opportunità, quella di superare il mio antico complesso d’inferiorità verso una superiore categoria sociale ed economica: il manager. Nonostante sia figlio di un ragioniere e nonostante la mia frequentazione del triennio di Ingegneria nella mia vita precedente, di economia e di numeri ne capisco tanto quanto D’Alema di etica. Quindi rimanevo sempre intimorito da queste figure mitiche, sulle loro auto seriesette, eleganti, occhio rapinoso e rapace, pronti a cogliere il meglio del turbocapitalismo. In Italia, nel mondo, ma anche fra Enza e Secchia. Imprese e banche, holding (che mi hanno spiegato dieci volte cosa siano ma ancora non ho capito) e golden share. Imprese comprate e vendute. Affari, il famoso pallino che non ho mai visto neanche da lontano. E, ovviamente, il corredo di femmine, auto d’epoca, ville e via godendo. E io? Storico di provincia, di quartiere, di strada, di pianerottolo? In cosa contribuivo allo sviluppo della società con le mie noiosee e polverose bazzecole? Insomma quasi una crisi di identità socio-cultural-economica.

Ma poi è arrivata la crisi che ha confermato i miei silenziosi sospetti: altro che geni della finanza! Campioni del turbocapitalismo? Nel migliore dei casi-generalizzo e chiedo venia a quei 2 e 3 che non corrispondono a queste mie lamentazioni-bronzee facce di tolla, capaci di aver fatto saltare una banca, saccheggiato una fondazione ed essere lì ad impartire ancora lezioni di vita ed economia, stimati soci di club e confraternite del carciofotto. Capitani d’industria che lasciano voragini di qualche milione di euro come fossero i gusci dei pistacchi salati la cena di Natale e mollano all’acqua (scusate il francesismo) dipendenti ed operai, squassando l’economia di interi paesi. Ma non erano geniali imprenditori? Non li invitavano a dare illuminati giudizi sull’arte, la musica e quant’altro? Silenzio, scomparsi, intenti magari a passare serate tristi e solitarie sul loro 18 metri ormeggiato a Lerici. In attesa di un degno ritorno. Per fare quei buchi, quei danni, allora bastava anche uno storico di provincia, oltretutto a costo ben inferiore.

Perchè un’altra cosa ho capito: che i soldi si fanno con i soldi e non con il lavoro. Eri in rosso di 1000 euro? Drin, la banca chiamava. Ma se eri sotto di 500.000, drin, la banca chiamava, ma per dartene altri 500.000 così magari, forse, restituivi anche gli altri. Lo so, sembra l’Opera da tre soldi del buon Berchtold, invece è stato uno dei percorsi che ci hanno portato con le chiappe all’aria (di nuovo scusate il francesismo).

E passi (si fa per dire) per i privati ma i manager pubblici? Arrivi, dopo sei mesi lasci un buco che la Fossa delle Marianne sembra un canaletto e che succede? Nulla. Ti dimetti e ti ricoprono di euro (si chiama buonauscita..) e sei pronto al prossimo buco, roba che neanche un tossico farebbe.

Qualche mese fa una signora reggiana ha avuto il titolo di cavaliere del lavoro, meritato per aver costruito negli anni un’impresa vera e reale. Di fianco a lei, pure premiato dal buon Napisan, un manager di stato che può vantare come unica impresa degna di nota la frequentazione con la Ferilli, visto che danni ne ha fatti ovunque l’abbiano destinato a “lavorare”. Cavaliere del lavoro? Cavaliere del traforo, al massimo.

Non so se ci sia una morale in tutto ciò. Io continuerò a far lo storico di quartiere e loro i manager, ma almeno quando li incontrerò sarò più sereno, quasi di buon umore. Penserò alla favoletta del Re nudo e, solo per educazione, non li saluterò con una bella pernacchia e un sonoro “fan…”.

Azzardo morale, veleno d’Europa (Barbara Spinelli)

A forza di parlare di governo tecnico, e di un premier che non ha ambizioni politiche, e di ministri che mettono al servizio dell’Italia le proprie conoscenze scientifiche per tornare presto agli studi o alle attività di ieri, ci stiamo abituando a tenere la mente in naftalina, come se il nostro pensare fosse il giunco che astutamente si piega, in attesa di rialzarsi tale e quale appena passata la piena.

Il proverbio del giunco è famoso nel vocabolario della mafia: sembra impregnare anche i partiti e le corporazioni, alle prese con la crisi e il dopo-berlusconismo. Quel che sta tentando il governo non sarebbe politica autentica, nella casa italiana ed europea che abitiamo. Finito l’intervento degli idraulici, rincaseranno i ben più legittimi architetti, decoratori, proprietari.
Questa è la trappola, anche linguistica, che incatena le menti. In realtà, lo sforzo di sanare l’Italia e per questa via l’Europa è politica nel senso pieno e alto, e non solo perché l’esecutivo dipende dal Parlamento. Quel che fa può essere condiviso o no, ma politica resta. Se non è vista come tale, è perché ci siamo disabituati a immaginare altre maniere di farla, e spiegarla. A distinguere fra ambizione e carriera politica. A ridefinire il compito dei partiti nella res publica.

Pensare non solo alle incombenti scadenze elettorali ma ai prossimi dieci, vent’anni; armonizzare le scelte italiane con quelle europee; battersi infine perché l’Unione si trasformi in una comunità più stretta, solidale: dire che tutto questo non è politica ma tecnica equivale a confessare una radicale impreparazione al mondo mutante che abbiamo davanti. Se tutto sta a esser preparati, ecco, non lo siamo: è a costumi obsoleti che stiamo appesi, api ronzanti che vedono un punto e non il tutto. Persistiamo in questa postura anche se la vecchia politica manifestamente è fallita: non solo economicamente ma civilmente, moralmente.

Così come stanno le cose, è probabilmente opportuno che i leader dei partiti non partecipino al governo chiamato a raddrizzare le storture. Lenti a rinnovarsi  –  Monti l’ha confessato  –  sarebbero un “motivo d’imbarazzo”. Ma se li vediamo da vicino, simili giudizi sono umilianti: certificano che i partiti sono incapaci di politica alta, di misurare e dire all’elettore le prove che ci toccano. Di vedere nella politica non una carriera ma una chiamata, appunto, cui si risponde con l’Eccomi del servizio. Gustavo Zagrebelsky ha scritto su Repubblica, il 12 dicembre, che i partiti hanno alzato bandiera bianca, dicendo a se stessi e ancor più ai cittadini: Dobbiamo esserci, ma vorremmo non esserci. Votiamo a favore ma ci riserviamo di dire, se serve: “Non è questo che volevamo”.

Certo è possibile la strategia delle doppiezze. Può esser perfino remunerativa. Se per quasi vent’anni gli italiani hanno votato con cocciutaggine un venditore d’illusioni, proprio questo desideravano: una non-politica, un farsi giunco nella speranza che il fuoco bruci tutti tranne noi, un fantasticare che il divenire non divenga (disincarnata, la fantasia diventa, secondo Hobbes, Regno dell’Oscuro). Ma è una strategia perdente. Di qui l’urgenza di qualcosa che somigli a una rivoluzione mentale. Rivoluzione è sostituire un regime bacato con uno nuovo: per noi vuol dire non svilire i partiti ma riscoprirli, interpreti e pedagoghi della società. Vuol dire aggiustare l’Italia pensandola come Alce Nero pensava il pianeta terra: “Non l’ereditiamo dai nostri padri, ma l’abbiamo in prestito dai nostri figli”. La rivoluzione è questa. L’Eccomi è quest’idea di temporanea custodia di un bene che oltrepassa una generazione.
È una rivoluzione insieme italiana ed europea, ed è significativo che in ambedue gli spazi la questione morale sia al centro. Nella nazione, spetta ai partiti tornare a essere quei mediatori descritti nell’articolo 49 della Costituzione: non gruppi d’interessi in complice difesa di una classe, una cerchia, ma libere associazioni di cittadini che concorrono “con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, dedite al bene comune e non ai propri affari. La questione morale consiste nell’evitare che la Cosa pubblica sia confiscata dall’anti-Stato: evasione fiscale, malavita, esattori del pizzo che usurpano l’esattore statale.

Ma esiste una questione morale anche in Europa, e perfino nelle vicende tecniche dei debiti sovrani, delle bancarotte statali, dei salvataggi europei. Non a caso c’è una parola che riaffiora cronicamente, ogni volta che Banche centrali o organi europei discutono le misure contro i default. Se l’Unione fatica a farsi Stato che protegge tutti i cittadini dalla paura e dagli infortuni, se Germania e Bce tergiversano, è a causa di un rischio specifico, che si chiama moral hazard.

Il rischio morale è un concetto nato nelle mutue. Mettiamo l’assicurazione contro gli incendi: se come assicurato mi sento sicuro a tal punto da non fare più attenzione ai fornelli accesi o ai fiammiferi, se la responsabilità personale cede il passo allo sfruttamento della buona fede altrui, c’è azzardo morale. Certo condivido il rischio pagando la polizza, ma la sicurezza che sarò comunque risarcito può incitare alla lassitudine. Lo stesso può succedere nei rapporti fra Stati europei.
Il dilemma dell’azzardo morale è l’assillo che avvelena l’Europa, tramutandola in un intrico di passioni distruttive: diffidenza verso i partner, paura che gli aiuti saranno sperperati, tracollo della fiducia da cui nacque l’avventura comunitaria. Anche un’essenziale conquista postbellica, il welfare europeo, può svanire a causa dell’azzardo morale. L’Unione e il welfare sono qualcosa di più di una compagnia assicurativa: non tutti i sinistri (diseguaglianze, precariato, la stessa flessibilità che secondo Draghi “crea incertezza”) incentivano la lassitudine.

Resta che il moral hazard aiuta a capire la centralità dell’informazione, della verità nei contratti. Sempre, infatti, esso insorge da un’informazione asimmetrica: l’assicuratore possiede meno informazioni dell’assicurato, sulle circostanze scatenanti l’infortunio. Affrontare le due questioni morali (la rivoluzione dell’onestà e della legalità in Italia, della fiducia e dell’unione politica in Europa) significa fare politica in modo diverso, prevenendo in tempo utile sciagure e ingiustizie con una più leale informazione reciproca. Dicendo ai popoli la verità sulle mutazioni mondiali. Imparando  –  partiti, sindacati, governi  –  ad agire nel duplice spazio nazionale ed europeo.

La dimensione nazionale della morale pubblica si è andata affievolendo, nella prima e seconda repubblica. Ma anche la dimensione europea è precipitata, per colpa di classi dirigenti incapaci (accade spesso) di pensare due cose al tempo stesso. Perché è urgente la seconda dimensione? Perché nella crisi odierna, agli stati dell’Unione tocca innanzitutto ridurre le spese, disciplinare i conti. Perché le liberalizzazioni son lente a fruttare. Perché l’equità è ostacolata a tanti livelli: lobby, sindacati, partiti, burocrazie statali. Inoltre non promette automatico sviluppo. La crescita, solo l’Europa potrebbe avviarla: con piani unificati di ricerca, di investimenti in energie alternative, in trasporti, in conoscenze, infinitamente meno costosi se fatti in comune.

È la risposta al moral hazard, alle paure, al clima di sospetto che regnano negli stati più forti e nella Bce. Ma per questo bisogna dare più soldi al bilancio europeo, più poteri alla Commissione, al Parlamento europeo. E bisogna che i cittadini possano contribuire a tale politica, attraverso i partiti, eleggendo direttamente i presidenti della Commissione, deliberando assieme gli investimenti europei e il loro finanziamento. Vale la pena questa rivoluzione, perché è lì che riapprenderemo e la politica, e la democrazia, e la sovranità che nazionalmente abbiamo smarrito.
 
(La Repubblica, 21 dicembre 2011)

Articolo 18. Per saperne qualcosa di più.

DISEGNO DI LEGGE N. 2000
d’iniziativa dei senatori NEROZZI, MARINI, ZANDA, CHITI, CASSON, ICHINO, AMATI, BAIO, BASSOLI, BASTICO, BERTUZZI, BIANCO, BIONDELLI, BUBBICO, CAROFIGLIO, CECCANTI, CHIAROMONTE, COSENTINO, DE LUCA, DEL VECCHIO, DELLA MONICA, DELLA SETA, DI GIOVAN PAOLO, DONAGGIO, FERRANTE, FIORONI, Mariapia GARAVAGLIA, GASBARRI, GRANAIOLA, INCOSTANTE, LEDDI, MARCENARO, MARCUCCI, Ignazio MARINO, Mauro Maria MARINO, MORANDO, NEGRI, Nicola ROSSI, SANGALLI, SCANU, Anna Maria SERAFINI, SERRA, SOLIANI, STRADIOTTO, TONINI, VITA, VITALI e ZAVOLI

Istituzione del contratto unico di ingresso

Presentato alla Presidenza del Senato il 5 febbraio 2010

testo in: http://www.pietroichino.it/?p=7306

Che cos’è l’articolo 18

testo in: http://www.ilpost.it/2011/12/19/che-cose-articolo-18/

L’articolo 18 parlandone seriamente (Francesco Costa)

testo in: http://www.francescocosta.net/2011/12/20/larticolo-18-parlandone-seriamente/

Il totalitarismo (videointervista a Giovanni De Luna)

Tra le priorità didattiche che la società contemporanea impone alla scuola, al primo posto si colloca la necessità di colmare la separazione tra i ragazzi, con la loro cultura di ‘nativi digitali’, e i docenti, la cui cultura alta è incentrata sulla lettoscrittura tradizionale. Benché oscurata dai troppi problemi economici e politici che investono l’educazione, la qualità di un insegnamento multimediale è un obiettivo importante che si raggiungerà creando competenze che cominciano ora a diffondersi.
 
Muovendosi in questa direzione il gruppo editoriale Pearson (al quale appartengono marchi storici come Paravia e Bruno Mondadori) sta promuovendo le versioni digitali di alcuni testi scolastici molto diffusi di letteratura italiana, filosofia e storia, come il Baldi, l’Abbagnano-Fornero, il De Bernardi-Guarracino e il De Luna, con un progetto di formazione che coinvolge i docenti. Si tratta di un ciclo di Convegni dal titolo La forza delle idee, che tra novembre e febbraio propone quaranta incontri di approfondimento disciplinare e di introduzione all’uso delle nuove tecnologie nella didattica. Un passo importante verso un sistema culturale che vive in una concezione cartacea del libro e resiste a una cultura visuale con cui ci si deve confrontare, pena l’incomunicabilità con le nuove generazioni.
 
L’intervista di Loredana Lipperini a Giovanni De Luna è un ottimo esempio delle potenzialità di uno strumento visuale che, usando il linguaggio dei media di qualità, possa andare incontro alla comunicazione del sapere nel mondo scolastico. E forse non è casuale che si inizi parlando di totalitarismo e del controllo della società attraverso la scuola e la comunicazione di massa.
 
Enrico Manera

Videointervista in:

http://www.doppiozero.com/materiali/videointerviste/de-luna-e-il-totalitarismo

BellaItalia: l’autostrada della morte (?!)

L’autostrada Palermo-Messina è stata inaugurata il 21 dicembre 2004, dopo 35 anni, 35 governi e una spesa di 4 miliardi e mezzo di euro, circa la stessa somma che servirebbe per realizzare il ponte sullo Stretto. L’allora governatore Cuffaro la definì “l’opera che segna una nuova era per la nostra regione”. Oggi però l’A20 è nota soprattutto come “l’autostrada degli incidenti”, ben 610 in cinque anni lungo un tratto di 49 chilometri fra Acquedolci e Falcone. Il bilancio finora è stato di 13 morti e 400 feriti. A calcolarli è la Procura di Patti, secondo cui sarebbe avvenuto uno scontro ogni tre giorni e mezzo.

A causarli non è soltanto la distrazione o la troppa fretta al volante, ma anche le condizioni pietose in cui versa l’autostrada. Secondo l’Anas i punti non regolamentari sono in tutto 473, con due gallerie che sono addirittura sul punto di crollare perché fradice d’acqua. Nella relazione della Procura, affidata al professor Gianfranco Capiluppi del Politecnico di Torino, si parla di “possibilità di distacco del rivestimento di circa il 70 per cento entro la prossima primavera”.

Eppure la manutenzione non dovrebbe essere complicata, se si tiene conto del fatto che il Consorzio per le Autostrade Siciliane (Cas), cui spetta la responsabilità dei 268 chilometri di carreggiata, paga ben 348 dipendenti e 150 stagionali. Cioè, in pratica, due lavoratori per ogni chilometro. Eppure gli interventi non sono mai stati fatti, a dispetto della convenzione con l’Anas che impone di destinare alla manutenzione non meno del 35 per cento dei ricavi derivati dai pedaggi, che sono in tutto 80 milioni di euro ogni dodici mesi. Anche se il 45 per cento di queste somme è destinata agli stipendi, contro il 35 per cento delle altre concessionarie autostradali.

http://it.notizie.yahoo.com/palermo-messina–l-autostrada-degli-incidenti.html?nc

Nemico del popolo 2. Senza vendetta

01 azione reggiane grandew472003123922.jpgUn amico mi ha dato una tirata d’orecchi: “Non trattare troppo male la CGIL”. Siamo in un paese dove è ancora è ammesso tutto (meglio, molto) ma non invitare gli amici a fare qualche riflessione, dove prevale una logica di eterno conflittoe, si sa, sotto il fuoco nemico non si può stare tanto a sottilizzare. I miei 25 lettori si ricorderanno che le mie riflessioni non andavano tanto ai contenuti (di economia non ne capisco molto) quanto agli strumenti che venivano utilizzati per difendere/contrastare quei contenuti. Mi colpiva (e mi colpisce) come continuassimo ad usare nel XXI secolo tattiche e strumenti di lotta obsoleti e ormai autolesionisti. Non me la “prendo” con la CGIL, come non dimentico che CISL e UIL hanno mandato giù le peggio cose con il governo del satiro plastificato e di Sakkoni e si mettono a fare sciopero oggi che c’è il buon Monti.

Il mio mestiere mi costringe a guardare i tempi lunghi anche nella storia sindacale/politica e non posso fingere che sempre tutto sia stato fatto bene e che le “meravigliose e progressive sorti” abbiano sempre segnato lo scenario nazionale e locale. Non santifico Santa Romana Chiesa, figurarsi organizzazioni politiche e sindacali. Così (tanto per farmi qualche altro nemico) non posso dimenticare che la lotta delle Reggiane fu un’operazione politica (legittima) costruita su una lotta sindacale persa in partenza. La citazione mi viene dall’aver vissuto qualche ora in questi giorni proprio nelle defunte Reggiane, ridotte ad una ghost factory ad un non luogo per chissà quanto tempo. Propongo di fare ora un “open day” delle Reggiane per mostrare ai reggiani come può finire un luogo di lavoro, storia e identità.

Taccio per carità di parte le pensioni baby, la teoria del salario come “variabile indipendente” o la caduta del governo Prodi per la questione delle 36 ore. Credo che si debba essere rigorosi se vogliamo ripartire e lo si deve essere in primo luogo con se stessi e con i “propri”, non condivido il motto “Right or wrong my country”.

Ironicamente ho ricordato che Di Vittorio o Togliatti sarebbero inorriditi a sentire dire che “…non si tratta!”. Si ricordavano bene di Menotti Serrati e del massimalismo degli anni venti che fu il primo alleato del cavaliere di Predappio. Sempre si deve trattare e trattare significa ascoltare le proposte e proporne delle proprie, ma le nostre proposte non possono essere la litania “i diritti acquisiti non si toccano”, perchè con questa litania abbiamo già perso in partenza. Intanto perchè, comunque, le cose andranno avanti, con o senza di noi (Marchionne docet) e poi perchè dovremmo chiederci quanti di quei “diritti acquisiti” nel tempo si siano trasformati in “privilegi”. Si tratta, si negozia e poi, magari, si rompe, ma dopo e non a prescindere. Quando nel 1947, per protesta contro la destituzione del prefetto Troilo a Milano, Pajetta occupò la Prefettura chiamò trionfante Togliatti per comunicargli l’evento. Il “migliore” lo gelò: “E adesso cosa intendete fare?”. Silenzio. Si narra poi che, dopo l’episodio,  incontrandolo Togliatti spesso gli chiedesse: “Allora, come va la rivoluzione?”.

Per stare ai poeti:

Your old road is
Rapidly agin’.
Please get out of the new one
If you can’t lend your hand
For the times they are a-changin’.

I tempi sono cambiati. E’ possibile pensare che una legge fatta 41 anni fa possa essere rivista, ripensata, riscritta, rilanciata, magari proprio per favorire l’ingresso dei giovani nel lavoro, mantenendo le tutele di chi il lavoro ce l’ha già? Forse sì, forse no. Ma non è il quarto segreto di Fatima. 41 anni fa c’era Rumor al governo (con 27 ministri e 56 s/segretari), Lama diventava segretario della CGIL, in Grecia c’erano i colonnelli, in Spagna Franco, negli Usa Nixon. Nel frattempo qualcosa è successo? Degli ultimi 10 anni di lavoro ne ho passati sette come precario (coco, cocopro, chicchirichi, etc..) e nessuno mi ha mai tutelato o si è preoccupato di pensare, predisporre alcunchè. Ora sono assunto a tempo indeterminato ma so che, dovessero venire a mancare finanziamenti, tornerei nella medesima condizione senza un bao. In 41 anni qualcosa è cambiato. La vecchia strada è velocemente invecchiata, toglietevi per favore dalla nuova se non potete dare una mano perchè i tempi stanno cambiando. Pensavamo che stessero cambiando in meglio, ci siamo dovuti ricredere, ma poco importa. I tempi, comunque, non stanno (più) cambiando, sono già cambiati.