Lo chiamavano Moshè lo Shammash*, come se dalla vita non avesse avuto un cognome. Era il factotum di una sinagoga chassidica. Gli ebrei di Sighet-questa piccola città della Transilvania dove ho trascorso la mia infanzia-gli volevano molto bene. era molto povero e viveva miseramente. Di solito gli abitanti della mia città, anche se aiutavano i poveri, non è che li amavano tanto: Moshè lo Shammash faceva eccezione. Non dava fastidio a nessuno, la sua presenza non disturbava nessuno. Era diventato maestro nell’arte di farsi insignificante, di rendersi invisibile.
Fisicamente aveva la goffagine di un clown, e suscitava il sorriso con quella timidità da orfano. Io amavo quesi suoi grandi occhi sognanti perdti nella lontananza. Parlava poco. Cantava, o meglio canticchiava. Le criciole che si potevno cogliere parlavano della sofferenza della Divinità, dell’Esilio della Provvidenza, che, secondo la Cabala, attendeva la Sua liberazione in quella dell’uomo. (segue)
*in ebraico: inserviente
(E.Wiesel, La notte, Giuntina 1980, pag.11)
Domenica 24 gennaio, Sinagoga di via dell’Aquila, ore 15,30 Lettura integrale.