La religione senza Dio

La religione senza Dio
di Ilvo Diamanti

È impossibile separare la religione dalla politica, in Italia. Tanto più dopo la fine della Dc, quando la Chiesa è tornata a rappresentare i valori, i principi, ma anche gli interessi dei cattolici in Italia, in modo autonomo e diretto. Il fatto è che oggi altri soggetti, oltre alla Chiesa, svolgono lo stesso ruolo. Talora in competizione, perfino in disaccordo con essa. Come dimostra la pesante polemica lanciata, ieri, dalla Lega contro il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano.

Ma gli esempi sono molti. Basta pensare alla proposta di inserire la croce nel tricolore. La bandiera nazionale. Avanzata (ancora) dalla Lega e apprezzata dal ministro Frattini, dopo il referendum che, in Svizzera, ha bloccato la costruzione dei minareti. D’altronde, la Lega si oppone alla costruzione delle moschee in molte realtà locali, insieme ad altri gruppi e partiti politici della destra (non solo) estrema. Xenofobia e islamofobia si mischiano e si richiamano reciprocamente, in nome delle radici cristiane dell’Europa e, soprattutto, dell’Italia. Come dimostrano le polemiche suscitate dalla decisione della Corte europea contro l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Criticata, in Italia, da gran parte delle forze politiche, di destra e di sinistra. Tutte impegnate a difendere l’identità cattolica. Anche a costo di entrare in contrasto con la Chiesa. Di assumere posizioni più clericali della Chiesa. Non nel caso del crocifisso, ovviamente, ma nelle altre vicende citate. Le moschee, i minareti. In generale: le politiche sull’immigrazione e i rapporti con gli stranieri. Su cui la Chiesa, attraverso le sue organizzazioni e i suoi media, ma anche attraverso la gerarchia (non solo il cardinale Tettamanzi, ma tutta), ha assunto posizioni molto lontane dalla Lega e dal centrodestra. Schierandosi a favore del diritto di culto e di fede religiosa, anche per gli islamici. E, dunque, in disaccordo con le guerre di religione lanciate contro i minareti e le moschee. E contro gli immigrati.

Da ciò il singolare (ricorrente) contrasto, fra la Chiesa e la Lega – spesso affiancata dagli alleati di centrodestra – nella rappresentanza dei valori religiosi e della “comunità cattolica”. Il fatto è che il valore della religione va ben oltre i confini della fede e della comunità dei credenti. D’altronde (Demos, 2007), l’insegnamento della religione nella scuola pubblica, in Italia, è approvato da 9 persone su 10. E dalla maggioranza degli stessi elettori di sinistra. Lo stesso per l’esposizione del crocifisso. Perché, come ha rammentato il sociologo Jean-Paul Willaime su Le Monde: “Tutte le società europee, per quanto secolarizzate, non sono mai uscite del tutto da una concezione territoriale di appartenenza religiosa; gli stessi immaginari nazionali non sono completamente neutri dal punto di vista religioso”.

Così, anche in presenza di un declino sensibile della pratica rituale, ai partiti populisti diviene possibile riattivare – e sfruttare – le componenti religiose dell’identità nazionale e territoriale. Non solo: la religione viene usata come strumento di consenso partigiano ed elettorale. Lo ha fatto la Lega fin dagli anni Novanta, in polemica aperta e dura contro la Chiesa nazionale, nemica della secessione. Lo scontro è proseguito in seguito, sui temi della solidarietà sociale, soprattutto verso gli immigrati. Sulla questione dell’integrazione. La Lega, in altri termini, si è proposta essa stessa alla guida di una religione senza Chiesa – e senza Dio. I cui valori, simboli, luoghi vengono fatti rientrare dentro i confini dell’identità territoriale. Ne diventano riferimenti fondamentali. D’altronde, il ruolo della religione nella costruzione dell’immaginario locale e nello stesso mondo intorno a noi – per riprendere la suggestione di Willaime – è innegabile e molto visibile. Un santo al giorno, scandisce il calendario. Le festività. Gli atti che accompagnano la biografia di molte persone: dal battesimo al matrimonio fino al funerale. E ancora, ogni giorno: le ore battute dai campanili. I quali, insieme alle chiese e alle cattedrali, fanno parte del nostro paesaggio quotidiano. Il che spiega, in parte, la reazione sollevata dalla possibile costruzione di luoghi di culto di altre religioni. Le moschee. Figuriamoci i minareti. Capaci di produrre una rottura rispetto al passato, resa visibile – anzi: appariscente – da uno skyline urbano inedito. Il che genera incertezza e inquietudine, soprattutto quando, come in questa fase, le appartenenze territoriali – nazionali e locali – sono scosse violentemente dalla globalizzazione, ma anche dai mille muri sorti dopo la caduta del Muro.

In Italia questo problema appare particolarmente rilevante, perché si tratta di un paese diviso, con un’identità nazionale debole e incompiuta. La Lega offre, al proposito, risposte semplici e rassicuranti a problemi complessi. Reinventa la tradizione per rispondere al mutamento. Recupera le radici cristiane di una società secolarizzata, le impianta sul territorio. Ricorre a simboli antichi per affrontare problemi nuovi. Lo spaesamento, l’inquietudine suscitata dai flussi migratori. Gli stranieri diventano, anzi, una risorsa importante per rafforzare l’appartenenza locale. Per chiarire chi siamo Noi attraverso il distacco dagli Altri.
Lo stesso crocifisso si trasforma in simbolo unificante, avulso dal suo significato. È la croce da associare al tricolore. Dove la croce è più importante del tricolore. Una bandiera che, secondo la Lega, evoca una nazione inesistente. Mentre la croce evoca lo “scontro fra civiltà”. La crociata contro l’Islam, che ha l’epicentro nel Nord, dove l’immigrazione è più ampia. D’altra parte, su questi temi gli italiani e gli stessi cattolici si trovano spesso d’accordo con la Lega e con gli alleati di governo (a cui essa detta la linea). Molto meno con le posizioni solidali e tolleranti espresse dalla Chiesa (Demos per liMes, 2008).

La sfida della Lega è, dunque, insidiosa. Perché etnicizza la religione. Costruisce, al tempo stesso, una patria e un’identità. Ma anche una religione alternativa. In tempi segnati da una domanda di appartenenza e di senso acuta e diffusa.
Di fronte a questa sfida, le scomuniche e l’indignazione rischiano di risultare risposte insufficienti. Inadeguate. Per gli attori politici. (Tutti, non solo quelli di sinistra. Anche per gli alleati di centrodestra). Ma soprattutto per la Chiesa.

http://www.repubblica.it/2009/11/sezioni/politica/mappe-diamanti/religione-senza-dio/religione-senza-dio.html

Il neo-anticomunismo

Il neo-anticomunismo
Ilvo Diamanti

E’ il tempo dell’anticomunismo senza il comunismo. In cui il “comunismo” ritorna come un mantra, nei discorsi del premier, dei suoi ministri, degli uomini del suo governo. Proprio-e tanto più-perché non c’è più. Ma serve. Come ha confessato Confalonieri a Sabelli Fioretti sulla Stampa: “E’ un ottimo argomento di vendita”. Utile a catalogare gli Altri, quelli che stanno a centrosinistra. Ma anche al centro, perfino a destra. Comunque: a est del muro di Arcore che ha sostituito quello di Berlino. Dove si stende la terra del neo-comunismo. Costellata di riferimenti reali ad alto contenuto simbolico e di simboli ad alto contenuto realista. Recitati ad alta voce da testimonial e leader d’opinione. Gli ideologi del neo-anticomunismo (senza il comunismo). Che colgono fratture antiche e latenti e le proiettano nel presente. Con un linguaggio e argomenti popolari. Parole gridate, sempre più forte, secondo le regole della “politica pop”.
Pensiamo, in primo luogo e soprattutto, al ministro Brunetta Onnipresente sui media. Sempre alla ricerca della provocazione. Buca lo schermo. Suscita, epr questo, grande consenso, ma anche ostilità. Nel suo stesso governo (com’è avvenuto di recente con Tremonti). Il suo marchio è la missione contro l’inefficenza della pubblica amministrazione. Contro i “fannulloni” che vi si annidano. Nell’intento-meritevole-di coniare un’etichetta onnicomprensiva e indelebile, per chiunque insegni oppure operi negli uffici pubblici. Condannato, ora e sempre, a una carriera da “fannullone”.
Altra figura importante-e popolare-è la ministra Gelmini. Si occupa della scuola e dell’università. Persegue, in modo determinato, l’obiettivo di ridurre gli sprechi e aumentarne l’efficienza. Anche la riforma dell’università, appena presentata, segue un disegno virtuoso. Introdurre criteri di qualità ed efficienza: nell’offerta formativa, dell’insegnamento, nel reclutamento, nell’organizazione. Ma appare mossa da una preoccupazione dominante-anche legittima per carità. Destrutturare il sistema di potere fondato sul ruolo dei professori ordinari. Disarmare i famigerati “baroni”. Senza chiarire cosa dovrà diventare questa università. Scossa da un processo di riforma continua. Da oltre 10 anni. Con una sola costante: la riduzione continua di risorse destinate all’università e alla ricerca. Prevista, puntualmente, anche da questa finanziaria. Con il rischio che insieme ai baroni affondi anche l’università. La meno finanziata di tutti i paesi dell’Ocse.
La scuola, l’università, la burocrazia, insieme, definiscono il regno della sinistra. Che ancora oggi attinge i suoi consensi maggiori proprio in quest’area sociale. Nell’impiego pubblico, fra gli insegnanti e nelle professioni intellettuali. Gli intellettuali.
Invece il neo-anticomunismo rappresenta il mondo di “quelli che lavorano sul serio”. Interpretato efficacemente dal ministro Sacconi. Spietato con gli ex-comunisti o presunti tali. Con la Cgil. Il sindacato comunista (e chi lo è stato in passato è destinati a rimanerlo per sempre). Accusato di agire ispirato da pregiudizio politico più che dagli interessi dei lavoratori. I suoi iscritti operai, d’altra parte, resistono solo nelle grandi fabbriche. Quasi estinte. Oppure sono pensionati. Ex lavoratori che non lavorano più. Assistiti dallo Stato. Anche per questo votano prevalentemente a sinistra.
Contro la sinistra pubblica e intellettuale agisce la Lega popolana plebea. Immersa nel territorio delle piccole imprese. Ma anche nelle campagne. Come rammenta Zaia. Ministro dell’agricoltura. Un drago della comunicazione. Contadino fra i contadini, allevatore fra gli allevatori. Anche se non è mai stato né l’uno né l’altro.
E’ su questa linea di demarcazione che è stato costruito il muro del neo-anticomunismo senza il comunismo. Il nuovo muro. Da una parte, a ovest, il mondo dei lavori e dei lavoratori “che usano le mani”. Gli imprenditori e gli artigiani che producono, faticano. Fanno. Dall’altra parte, quelli che parlano, dicono, predicano. A spese dello Stato. Da un lato il privato e dall’altro il pubblico. Da un lato le cose concrete dall’altro quelle virtuali. Da un lato i “fannulloni” e dall’altro i “fantuttoni”, per citare Francesco Merlo. Quelli che fanno e quelli che dicono. I piccoli imprenditori e i lavoratori “veri” contro gli statali, i maestri,i professori, i baroni. Contro i giornalisti. Ma anche contro “attori e attrici, artisti e commedianti, registi e teatranti, cantanti e cantautori…Schiavi e proni. In attesa di una nuova rivoluzione”. Come li ha apostrofati il ministro Bondi, in una lettera al Foglio, a commento della visita degli artisti al Quirinale. Bondi: fino a ieri persona mite e rispettosa. Si è adeguato al linguaggio e allo stile del tempo. All’ideologia  che fa ritenere “L’industria culturale” quasi un ossimoro.
Berlusconi non si limita a ispirare questa rappresentazione del mondo. Ne scrive il copione, ne sceglie i personaggi. Delinea la scena con obiettici simbolicamente reali e realmente simbolici. Offerti dall’emergenza presente. Luoghi come Napoli-da liberare dall’immondizia; L’Aquila-da ricostruire sulle macerie del terremoto. Oppure il ponte sullo Stretto. Più che una infrastruttura: una sovrastruttura marxiana. Ideologia allo stato puro. Berlusconi è l’uomo-che fa, alla guida del governo italiano, che-ha fatto-più di tutti-negli ultimi 150 anni. Cioè da quando esiste l’Italia unita. Un vitalismo che schiaccia l’opposizione. Rappresentata e guidata da funzionari, uomini di Stato. Politici di professione. Giornalisti. Artisti. E intellettuali. Quindi ex oppure neo-comunisti. L’opposizione. Dovrebbe certamente avvicinarsi di più al mondo dei lavori. E magari rifiutare, senza rassegnarsi, questa ideologia. Che considera la cultura inutile. E l’intellettuale una figura improduttiva. Più che una categoria: un insulto.

La Repubblica, 15.11.2009

Salvate (non solo) il soldato Shalit

Salvate (non solo) il soldato Shalit
di Sergio Luzzatto

Da tre anni e mezzo a questa parte, da quando cioè un commando palestinese attaccò un posto di frontiera israeliano nel sud della striscia di Gaza, uccidendo due militari di Tsahal e catturandone un terzo, la sorte del ventenne soldato Gilad Shalit è divenuta in Israele un autentico psicodramma. Né la vicenda è rimasta confinata entro i confini dello Stato ebraico: nel frattempo, il soldato prigioniero si è visto attribuire la cittadinanza onoraria di Parigi e di Roma. Ma adesso, alla possibile vigilia della liberazione di Shalit per opera di Hamas in cambio della liberazione di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, anche altri nodi della questione meriterebbero di venire al pettine.

Per gli israeliani, Gilad Shalit è un simbolo di martirio. Segregato tre anni e passa in qualche misterioso sottoscala di Gaza, senza poter inoltrare ai familiari niente più che tre lettere, senza nulla poter ricevere da loro, e senza che Hamas abbia permesso neppure alla Croce Rossa di verificarne lo stato di salute, in spregio al diritto internazionale umanitario: a tali condizioni, come stupirsi che la salvezza del soldato Shalit sia vissuta in Israele come una priorità nazionale? Pellegrinaggi, fiaccolate, raduni, cortei. E la prevalenza sempre più netta di un “partito della trattativa” su un “partito della fermezza”. Se pure, per liberare Shalit, Hamas richiede allo Stato ebraico un prezzo altissimo, gli israeliani appaiono ormai pronti a pagarlo.

Il governo di Benjamin Netanyahu sembra disposto a trattare sulla base di una proporzione esorbitante: mille a uno. I termini esatti del negoziato restano segreti, ma domenica scorsa fonti governative israeliane hanno parlato di 980 palestinesi che ritroverebbero la libertà in cambio di Shalit. Nei fatti, può ben succedere che la trattativa finisca con l’arenarsi, laddove Hamas insistesse per la scarcerazione di alcune decine di terroristi che Israele rifiuta di includere nello scambio. In ogni caso, una cosa è sicura. Dopo essersi lungamente dichiarato indisponibile a negoziare, Israele sta trattando. E sta trattando sulla base aritmetica di quanto Hamas ha sempre richiesto, dal 2006 a oggi: mille contro uno.

Nel momento in cui sembra pronta a inchinarsi davanti alla dismisura della richiesta palestinese, Israele dimostra quanto consideri sacra la vita di ogni suo militare. Per lo Stato ebraico, salvare il soldato Shalit (promosso caporale durante la prigionia) significa salvare l’anima di un Paese nato da una guerra e cresciuto nelle guerre. Il 2 ottobre scorso, il governo Netanyahu ha liberato venti detenute palestinesi in cambio di un semplice video, che mostrava Gilad Shalit ancora vivo e in buona salute. Per il bene di Israele, salvate il soldato Shalit. Il resto – la striminzita contabilità dei numeri – non deve contare. Abbasso l’aritmetica, viva l’etica.

Senonché, da tre anni e mezzo in qua, altri numeri e altre proporzioni esorbitanti hanno scandito questa drammatica storia. Numeri e proporzioni di cui l’opinione pubblica israeliana ha scelto di non tenere conto, e che l’opinione pubblica internazionale rischia di dimenticare. I numeri sono quelli dei palestinesi uccisi per opera dell’esercito israeliano dal giorno del sequestro di Shalit, 24 giugno 2006, fino a oggi, attraverso quattro offensive massicce nella striscia di Gaza. Durante i primi due anni dopo il rapimento, circa seicento vittime palestinesi (civili, nella stragrande maggioranza dei casi) contro una manciata di soldati israeliani. Fra dicembre 2008 e gennaio 2009, con la cosiddetta operazione “Piombo fuso”, addirittura 1330 morti palestinesi (civili nella stragrande maggioranza) contro 13 vittime israeliane (dieci militari, tre civili). Sono numeri più parlanti di qualunque discorso: nell’ultima offensiva di Tsahal, la proporzione dei morti è stata esattamente di cento a uno.

Abbasso l’aritmetica, dunque, ma abbasso anche l’etica. Oggi, nessun osservatore internazionale minimanente assennato può condividere un mito che pure resta diffuso entro i confini di Israele, il mito secondo cui Tsahal sarebbe l’unico “esercito morale” rimasto al mondo. Non è morale un esercito che combatte la guerra più asimmetrica della storia, il fior fiore delle tecnologie militari più avanzate contro un milione e mezzo di civili (e qualche migliaio di terroristi) rinchiusi a forza in 360 chilometri quadrati. Non è morale un esercito che maramaldeggia da decenni sopra un avversario privo di un singolo aereo o di un singolo tank. Non è morale un esercito che saluta come brillanti vittorie operazioni militari dove si uccide a cento contro uno. Soprattutto, non è morale un esercito che accetta a cuor leggero di annientare i bambini e gli adolescenti: nei venti giorni dell’operazione “Piombo fuso”, i minorenni palestinesi uccisi da Tsahal sono stati almeno 430.

Così, si ha ragione di denunciare Hamas per violazione del diritto internazionale umanitario nel trattamento di Gilad Shalit. E si ha ragione di elevare il soldato Shalit a simbolo planetario, facendolo cittadino ad honorem di Roma o di Parigi. Ma si ha altrettanta ragione di denunciare Israele per violazione sistematica del diritto internazionale umanitario, nelle norme che regolano la proporzionalità del rapporto fra un’azione militare e le sue conseguenze sui civili. E si avrebbe ragione di conferire la cittadinanza onoraria in memoriam a uno qualsiasi delle centinaia di bambini o ragazzi palestinesi caduti sotto il piombo israeliano dopo il sequestro di Shalit, in questa nuova (e inutile) strage degli innocenti.


http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Italia/2009/commenti-sole-24-ore/6-dicembre-2009/medio-oriente-salvate-soldato-Shalit.shtml

Day after B Day 2

Riceviamo e pubblichiamo un’intercettazione top secret effettuata ieri mattina sulle linee telefoniche del cosiddetto PD:

Pierluigi al telefono con un’amica è indeciso se andare o no ad una manifestazione:

– No veramente non…non mi va. Ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Senti, ma che tipo di festa è? Non è che alle dieci state tutti a ballare i girotondi ed io sto buttato in un angolo…no. Ah no, se si balla non vengo. No, allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto, così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce. Voi mi fate “Pierluigi, vieni di là con noi, dai” ed io “andate, andate, vi raggiungo dopo”. Vengo, ci vediamo là. No, non mi va, non vengo.-

Day after B Day

Dalla “Stampa” di oggi:

L’onda viola: “Berlusconi dimettiti”

I numeri della Questura: 90 mila. Per gli organizzatori «un milione». I politici e i partiti in secondo piano
ROMA
Qualcosa di vecchio e qualcosa di nuovo, qualcosa in prestito e qualcosa di blu: in piazza il viola sostituisce il blu ma per il resto il popolo di Internet, autoconvocatosi su Facebook e sui blog per dire no al Governo e chiedere le dimissioni di Silvio Berlusconi, rispetta la tradizione che chiede alla sposa di combinare in questo modo nel giorno fatidico la sua toilette.

Di vecchio c’è la battaglia dei numeri: gli organizzatori, dopo qualche incertezza, sparano entusiasticamente mezzo milione, un milione, un milione e mezzo di partecipanti, la questura ne ’certificà solo novantamila e anche questa sembra una prudenza ’politicà; piazza San Giovanni infatti è piena mentre il corteo continua a sfilare e c’è gente che già defluisce a manifestazione in corso. Di nuovo c’è appunto il metodo scelto: la piazza virtuale della rete, che nessuno immaginava potesse produrre una mobilitazione di queste dimensioni (replicata in piccolo all’estero, con sit in davanti ad ambasciate e consolati italiani). «I partiti? Gli abbiamo chiesto una mano – racconta Gianfranco Mascia del comitato organizzatore – ma volevano concordare la piattaforma. Stanno ancora alla piattaforma…».

In prestito c’è la scelta di colorare la manifestazione in modo uniforme: l’idea delle “rivoluzioni colorate” ha avuto grande successo in anni recenti in Ucraina e Georgia. A caratterizzare politicamente la manifestazione è una opposizione totale, senza se e senza ma a Silvio Berlusconi. «Chi non salta Berlusconi è», canta e salta, appunto, il ’popolo violà e dal palco gli interventi più applauditi sono quelli che danno del «mafioso» al presidente del Consiglio. Più ancora che alla maggioranza parlamentare, e al premier cui viene chiesto di «farsi processare» in tribunale, questa piazza parla ancora una volta al centrosinistra: l’Idv è in piazza, è presente in forze (quelle non faraoniche disponibili in questa fase) la ex sinistra radicale, si accoda una parte del Pd dopo il no del segretario Pier Luigi Bersani per non perdere del tutto il contatto con un pezzo importante dell’elettorato.

La piazza parla al centrosinistra dicendo di fatto no a chiunque immagini di poter dialogare, su qualunque tema, con un premier di fatto considerato fuorilegge: lo fa quando sale sul palco Salvatore Borsellino impugnando un’agenda rossa come quella sparita del fratello Paolo ucciso in via D’Amelio: «Sono qui perché la mafia deve essere cacciata fuori dallo Stato, fuori dalle istituzioni», dice chiamando in causa anche il presidente del Senato Renato Schifani: «Persone come lui non dovrebbero occupare le istituzioni». Parla al centrosinistra quando l’attore Ulderico Pesce urla dal palco al premier: «Sei tu il mafioso, sei tu dietro le stragi», attirandosi un possibile strascico giudiziario. Applausi. Applauditissimo anche Giorgio Bocca, decano dei giornalisti italiani, che in un messaggio video scalda la piazza spiegando che il progetto di Berlusconi è «antidemocratico» e lo dimostra anche «l’uso terroristico dell’informazione che viene fatto dal Giornale di Feltri».

Non a caso, Bocca prende di mira anche il Pd: «Deve decidere cosa vuole fare – attacca – perchè Berlusconi sta cercando di costruire una democrazia autoritaria». Qualcuno aveva capito subito che l’iniziativa si sarebbe rivelata un successo, e infatti Italia dei Valori e Rifondazione erano state le prime a garantire adesione e collaborazione agli organizzatori. Il Pd, timoroso di rimanere schiacciato su Di Pietro, aveva preferito dire no alla piazza ’violà e convocare una sua mobilitazione in mille piazze italiane per il prossimo fine settimana. Poi ha scelto il profilo intermedio, con alcuni dirigenti a sfilare a titolo individuale fra piazza della Repubblica e San Giovanni: la presidente democratica Rosy Bindi si era cautelata in una intervista, ammonendo il leader dell’Idv a «non usare la piazza contro il Pd». «Nessuna polemica», è la replica di Antonio Di Pietro, e allora anche l’esponente democratica può auspicare un dialogo con i manifestanti: «Non è un popolo di frustrati ma di indignati», dice.

«Il fatto che sia qui io che sono il presidente vuol dire che le divisioni sono superate», dice ancora Bindi, anche se Franco Marini, assente, la pensa diversamente: la manifestazione «è un errore», afferma. «Se andiamo avanti di questo passo, rischiamo di tenerci il Cavaliere anche oltre questa legislatura». E i colleghi democratici in piazza a suo giudizio «sono addirittura troppi». Fra questi, l’ex pupillo Dario Franceschini, oggi capogruppo alla Camera, che però non parla: «Facciamo parlare i ragazzi e le ragazze che sono qui oggi». In perfetta sintonia con i toni del corteo Di Pietro: «Quella di oggi è la prima giornata di resistenza attiva prima della spallata finale a un governo piduista e fascista. Questo governo – accusa – troppo speso assume comportamenti che sembrano mafiosi e non nell’interesse dei cittadini». E se Berlusconi rivendica la cattura dei latitanti mafiosi, Di Pietro gli rinfaccia di voler «bloccare la magistratura» e di tagliare i fondi alle forze dell’ordine. Gli arresti, dice, si fanno «nonostante Berlusconi e non grazie a Berlusconi».

(…) testo completo in:http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/200912articoli/50078girata.asp#

NO B-Day

Oggi il NO B-Day. Lo slogan dominante è “berlusconi dimettiti”.

Oddio! Non sarà un po’ troppo forte? Non sarà troppo anti-berlusconiano? Signora mia, dove andremo a finire? Ci vuole calma, lasciare spazio alla politica! Facile urlare “Via berlusconi”! Lo sanno fare tutti. Vuol mettere stare tutti i giorni lì a parlare con quagliariello? Prendere un caffè con cikkitto? Andare a cena con gasparri? Lì ci vuol coraggio! Lì si vede chi ha le palle (scusi l’espressione), signora mia!

Oggi in piazza centinania di migliaia di persone! Troppa agitazione! Si finisce poi come? Per fortuna che i girotondi li hanno messi a posto, figurarsi quando Moretti andò a dire “Con questi perderemo sempre!” Facile fare l’artista! Ma la po-li-ti-ca è altro!

In un film dei fratelli Coen (Ladykiller) il vecchio sceriffo ha un cartello nel suo ufficio “Rieleggetemi! Sono troppo vecchio per lavorare!”. Ecco, pensiamoci sempre, facile vestirsi di viola e andare in piazza per dire “b. vattene!”. Facile. E se poi quello si offende e se ne va davvero?

Non temo Berlusconi in sè, temo Berlusconi in me” (G.Gaber)

Chi nasconde la Piovra (C.Lucarelli)

Non si dovrebbe rispondere alle sciocchezze, soprattutto se sono grosse. E dire che bisognerebbe strozzare chi scrive i libri e le fiction sulla mafia perché crea un falso immaginario nuocendo all’immagine del Paese è una grossa sciocchezza, soprattutto se a dirla è il proprietario della tv e della casa editrice che quei libri e quelle fiction stampa e manda in onda. Sarebbe come dire che è meglio smettere di parlare di cancro e fare finta che non esista, se no all’estero pensano che siamo tutti malati.
Però, quando dice sciocchezze, il nostro presidente del Consiglio spesso si fa portavoce di cose che molta gente pensa, anche se a mio parere – e lo dico con rispetto verso quella gente che non ha l’informazione di un presidente del Consiglio – sbaglia. Perché è vero, sceneggiati come «La Piovra» o la fiction su Graziella Campagna – una ragazza innocente uccisa dalla mafia di cui non ci dobbiamo mai dimenticare – oppure libri come «Gomorra», parlano di mafia, ma parlano anche di antimafia, testimoniando il coraggio degli italiani nel denunciare un problema che esiste e cercare di risolverlo.
All’estero l’Italia è studiata anche per questo. Perché i Paesi che si trovano impreparati di fronte ad un problema globale come quello delle mafie – non solo italiane – è all’Italia che guardano per trovare metodi investigativi, leggi e anche “eroi” a cui ispirarsi. Questa è una bella Italia, e quando fiction e libri fanno bene il loro lavoro, questa è l’immagine del nostro Paese che passa. Non quando si dice e si ripete che un mafioso come Vittorio Mangano è un eroe.
Ecco, quella sì che è una brutta immagine che diamo del Paese. Quella sì che ci fa sembrare tutti mafiosi.

http://www.unita.it/news/carlo_lucarelli/92207/chi_nasconde_la_piovra

Il nulla che parla

Dopo la deposizione di Spatuzza i commenti. Per amicizia e bontà non riporto i vari bossigasparrimiccichèmarroni (scusate tante parolacce insieme) ma una uscita non ve la posso risparmiare. Il luogo(nulla)tenente del nostro generale Aureliano Buendia di Gallipoli, quel nicola latorre che ricordiamo tutti impegnato nel porgere un pizzino a bocchino, così chiosò:

La credibilità di Spatuzza va valutata dalla magistratura attraverso rigorosi riscontri. Mi colpisce il fatto che 250 televisioni di tutto il mondo abbiano potuto registrare le dichiarazioni di Spatuzza senza un loro preventivo riscontro. Anche questo è un modo di fare uso improprio delle dichiarazioni dei pentiti. La scelta di pentirsi è piuttosto impegnativa e ha portato importanti risultati. Starei quindi attento a non gettare via il bambino con l’acqua sporca“. Traduzione: “Questi pentiti ci hanno rotto le palle, quasi come i magistrati che perdono tempo a rivangare ‘ste cose. 250 televisioni al mondo sono fatte da pirla che anzichè venire a sentire cosa dice massimo, perdono tempo in queste bagatelle. Adesso torniamo ai nostri giochini e lasciateci in pace…”

Our favourite prime minister. Time to say addio

Da: The Economist, 3.12.2009

Our favourite prime minister Time to say addio

Silvio Berlusconi’s political career is teetering on the brink. He should go.

EVEN by his standards, it has been a bad week for Silvio Berlusconi, Italy’s prime minister. A court demanded surety for a huge fine on his Fininvest company, over its 2000 purchase of Mondadori, Italy’s biggest publisher. His wife, Veronica, is seeking a vast divorce settlement. His trial on charges of bribing a British lawyer, David Mills, is restarting after his immunity was quashed. New claims are being aired of one-time Mafia connections. A “No Berlusconi Day” protest is being staged in Rome this weekend. Mr Berlusconi has made political survival an art, but even he now looks to be in trouble ….

The Economist’s view of Mr Berlusconi has been consistent. We criticised his political debut in 1993-94. In 2001 we said he was unfit to rule Italy. In 2006 we advised Italian voters to say “Basta!” to his government. We urged them to back his centre-left opponent in March 2008. Yet we have been cautious over joining the extensive and prurient commentary on a lurid array of sex scandals that have engulfed the 73-year-old prime minister this year. We prefer to judge him on two more substantive matters: the conflicts of interest between his business and political jobs, and his government’s performance.

This week’s events have thrown a dark light on the first. The resumption of various court cases involving him or his associates, plus a series of other business and legal issues, are distracting him and his government from their other responsibilities. The damage is visible. With the financial crisis and the recession, attention has shifted from Italy’s economic difficulties to the plight of places like Greece. Yet although Italy’s admirable small businesses in the north are thriving, the country as a whole still lags behind badly. In the year to the third quarter its GDP shrank by more than the euro-area average, and it is expected to fall by almost 5% in 2009, as big a drop as in any other big west European country.

Mr Berlusconi’s government has been shockingly dilatory in its response. For a long time the prime minister denied that Italy would go into recession. He used the parlous public finances as a reason to justify why Italy’s fiscal stimulus should be much smaller than in other big countries. Unlike a few braver political leaders, he also failed to promote the sorts of economic reform needed to restore the country’s competitiveness, which has deteriorated sharply against Germany’s. Italy remains over-regulated and comes out distressingly badly in international league tables for such things as the ease of starting a business, the extent of corruption, the level of a country’s research spending and the quality of its education.

In his third government Mr Berlusconi has also pursued an eccentric foreign policy out of kilter with Italy’s Western allies. He has cosied up to Russia’s Vladimir Putin and Libya’s Muammar Qaddafi in pursuit of Italian energy interests (this week he was in Belarus, chatting up another dictator, Alyaksandr Lukashenka). Under Mr Berlusconi, Italy continues to punch below its weight in the European Union and the world.

Go, go, Silvio
Partly thanks to his own machinations, there is no obvious successor if Mr Berlusconi quits. Indeed, some supporters say it is better to stick with him because the alternative would be chaos. Yet Italy has other potential leaders: Gianfranco Fini in his own party, who is openly plotting to oust Mr Berlusconi; Pier Ferdinando Casini in the centre, who held aloof from his third government; even the new centre-left leader, Pierluigi Bersani, who pushed reforms in the government of Romano Prodi. One of these would surely come to the fore were Mr Berlusconi to go. Whoever does might even complete the country’s transformation, which Mr Berlusconi halted in its tracks when he entered the political stage in the 1990s. Italy would be better off if il cavaliere now rode out of the scene.

http://www.economist.com/opinion/displaystory.cfm?story_id=15017197

Erano bagatelle

Erano bagatelle. Così littoriofeltri sul caso Boffo. Sì, signora, abbiamo esagerato, cosa vuole, magari uno pensa che, tira fuori la spingarda e spara e poi…beh, ci si può sbagliare, e che diamine! Intanto un rispettabile direttore è stato buttato nello sterco e via così…

Quale leader di un paese civile non è stato accusato almeno una volta di collusione con la mafia? Bisogna essere uomini di mondo! Chi di voi, simpatici lettori, non ha mai ricevuto un avviso di garanzia, che so, per corrruzione, diffamazione, falso in bilancio (no, quello non è nemmeno più reato: provate a farlo negli Usa e poi ne riparliamo..), abigeato? E’ uno status symbol, se non ce l’hai non sei nessuno! E qui invece tutta ‘sta confusione, centinaia di giornalisti piovono dall’estero per cosa? Mah…parvenu..

Ma intanto possiamo star tranquilli: la CEI (Commissione economica italiana) richiama tutti alla tranquillità, alla pace. “Ubi desertum faciunt pacem appellant”, così descriveva sinteticamente Tacito la “pax romana”. E che ci vuole, signora, un po’ di stile, calma, accendete la tv e state un po’ tranquilli, il deserto è così tranquillo, soprattutto quello mentale…”Il nostro Paese – ha sentenziato il card. bagnasco– di fronte alle grandi questioni che lo interrogano ha bisogno di un linguaggio serio e sereno, di cultura del rispetto, di passione per il bene comune“. Ma chi era quello che diceva “il vostro parlare sia sì, sì, no, no, il resto appartiene al demonio“? Ah, ora ricordo, il solito extracomunitario…