La “Bartalite”. Antica sindrome nazionale.

Anche quelli più giovani forse ricordano Gino Bartali, l’unico in grado di opporsi a Fausto Coppi sulle salite d’Italia e di Francia.

Ma Bartali era noto anche per il suo carattere ruvido e sincero, al limite della sfrontatezza, un carattere che si riassumeva nel suo celebre mantra ripetuto con quel dolce accento toscano: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare..!”.

Bartali è passato, fra l’altro abbiamo scoperto da poco quanto abbia fatto, lui cattolico praticante e devoto, per salvare ebrei durante la Shoah in Italia. Bartali è passato ma si è diffusa la “Bartalite”, una sindrome sociale strisciante e contagiosa che ha travolto fasce sempre più ampie di popolazione.

Sintomo rivelatore: una perenne incazzatura, sorda e lamentosa, che spesso esplode in accessi parossistici.

Nei bar, su FB, circoli e condomini, What’s up o circoli sociali, basta soffermarsi un poco perché qualcuno sia lì a demolire tutto e tutti. A prescindere. Dalla Ferrari al made in Italy, dal Colosseo a Ponte Vecchio.

Per non dire poi, come logico, della politica. Tutti scemi, tutti corrotti, tutti ladri, incapaci, scemi, coglioni, venduti (a questo o a quello, poco importa). Ora, finché si era nel regno del vecchio suino plastificato qualcosa ci poteva anche stare, ma ora, prima Monti, poi Letta, poi Renzi. Napolitano. Niente. Non ne hanno mai azzeccata una. Eppure, statisticamente, anche il più pirla degli incapaci almeno una buona la fa. No. Zero.

In politica la “Bartalite” assume poi la sua forma patologica di “Bartalite travagliata”, dove un giornalista spiega anche al Padreterno dove ha sbagliato e quella più folkloristica (per fortuna in regresso nel paese) di “grillurlantismo”, dove alla patologica demolizione sistematica si aggiungono complicazioni quali complottismo, semplificazionismo compulsivo  e cieca adorazione compulsiva del web e del leader.

La cura per ora non esiste o almeno non tramite soluzioni di breve periodo che non siano quelle antiche (con relative e note controindicazioni: assunzione di alcol, psicofarmaci, autoerotismo, consumo di sostanze poco lecite).

In realtà la sindrome andrebbe curata nelle sue radici profonde ma il percorso non si presenta agevole. I pazienti mostrano tutti una predisposizione a sviluppare la malattia data da una comune caratteristica. Hanno (o credono di avere) una vita di merda, il più delle volte con cause endogene ma, proprio per questo, più difficile da accettare. Se a questo poi si aggiunge un’atavica debolezza italica: il “semplicismo” (esistono sempre soluzioni facili a problemi incasinati), il quadro clinico si delinea davvero preoccupante. Ben oltre Ebola, che almeno quello, una volta contratto, ti risolve tutti i problemi davvero.

Certo la cura esiste: si chiamerebbe istruzione, cultura, lettura, riflessione, modestia, impegno ma come pretendere da chi non sa più cosa vuole, ma lo vuole subito?

Gli esperti propendono ormai per una endemizzazione del morbo, alla stregua dell’herpes che sonnecchia in tanti e poi fiorisce per un qualunque stress cui il soggetto possa venire sottoposto. Una endemizzazione che condannerà buona parte paese all’invecchiamento (se tutto fa schifo perché fare figli) e alla paralisi (se tutto è marcio, perché impegnarsi in qualcosa) mentre proseguirà l’esercizio preferito dalle masse colpite dalla “Bartalite”: distruggere sempre tutto e tutti.

Tutti tranne un’eccezione: Papa Francesco. Ma per lui temo valga quello che un collega di Cracovia mi disse a proposito di Papa Giovanni Paolo II: “I polacchi lo adorano, ma mica lo ascoltano..”.

Rimasi solo in un silenzio agghiacciante (T.De Prato)

La memoria di un testimone della strage della Bettola.

In occasione del 70imo anniversario della strage della Bettola (24 giugno 1944) Istoreco e il Comune di Vezzano hanno promosso una nuova ricerca condotta da Matthias Durchfeld e Massimo Storchi su quella tragica vicenda. Il libro “La Bettola. La strage della notte di S.Giovanni” è stato presentato il 22 giugno a La Vecchia.

Quando il volume era già in corso di stampa è stata reperita questa testimonianza del magg.Tullio De Prato, all’epoca dei fatti collaudatore delle “Reggiane”, contenuta nel suo volume di memorie “Un pilota contadino…dal motore rotativo al jet…[1]. De Prato possedeva all’epoca un piccolo podere in località Cuccagna, immediatamente sopra la Bettola, dove era sfollato con la famiglia. Da casa sua passarono i partigiani il giorno precedente l’attacco e la notte della strage sulla via della fuga.

La testimonianza è rilevante soprattutto nella parte finale quando racconta l’incontro, all’alba del 24 giugno, sul luogo della strage con i militari tedeschi (erroneamente indicati come facenti parte della SD-Sicherheitdienst) in procinto di rientrare a Casina e l’orrore per la scoperta di quanto accaduto.

 

Bettola

Con i soldi ricavati dal collaudo del RE2005 m’ero comprato un poderino: pensavo di costruirvi una casa, tra il verde, dove vivere serenamente, con i figli, a guerra finita. Un sogno lontano che mi aiutava a superare tante amarezze. Più che la ferace pianura reggiana mi attraeva la collina. E sui colli che fiancheggiano il Crostolo, avevo individuato il luogo più adatto alle mie ambizioni.

La strada del Cerreto, superata Vezzano e raggiunta La Vecchia, si biforca: la deviazione a sinistra conduce a Montalto. Da Montalto a Cuccagna il percorso è breve e, a ridosso del Monte Duro, in Cuccagna, feci costruire il mio rifugio. Una casetta di proporzioni minime dove non c’erano né acqua né luce elettrica. Vi abbondava, invece, il sole, anche quando la “bassa” era affogata nella nebbia.

La casetta non era ancora ultimata che ci sorprese l’8 settembre: l’armistizio. Reggio Emilia, subito, nella notte sul 9, fu occupata dalla Divisione “Hitler”. Colti alla sprovvista, senza ordini e senza mezzi adeguati, i soldati del presidio si arresero all’alleato, smarriti e fiduciosi. L’alleato, che non era più tale ma “ex”, esprimendo incomprensione, ne caricò in gran numero su lunghi e tranquilli convogli. Anche la città era tranquilla e, nessuno, pensava ai campi di prigionia; nessuno sapeva dei campi di sterminio.

Anche il personale dell’Aeroporto fece la stessa fine e il Colonnello, che aveva mancato alla parola data fu ucciso da un colpo di pistola da un ufficiale germanico[2]. Con i ragazzini ed il “bagaglio” sulla canna della bicicletta anch’io mi avviai fuori città per sfuggire alle inevitabili ricerche. Meta, il mio colle..recondito. Ci alloggiò, alla meglio, il mezzadro del podere confinante e solo dopo una quindicina di giorni potei prendere possesso della mia “proprietà”, ben deciso a non muovermi.

L’illusione ebbe breve durata. Un mattino-presto-mi sentii chiamare per nome. Era il Direttore amministrativo delle “Reggiane” accompagnato da un Capitano tedesco che, maschin-pistole (sic) alla mano continuava a gridare: “Banditen, Partisanen! Kommen sie hier!”. Bellelli, il Direttore, mi fece una quadro della situazione in officina. I tedeschi pretendevano-per meglio controllare la popolazione-che la fabbrica continuasse l’attività e tutti rientrassero ai posti di lavoro. Per i renitenti, la minaccia della deportazione.

Così, in bicicletta com’ero venuto, rientrai a Reggio. Lo stabilimento era presidiato da soldati armati di mitragliatrici, piazzate nei punti più adatti alla sorveglianza. Ciascuno era al proprio posto. Nessuno lavorava ma ognuno borbottava qualcosa al proprio vicino; tirava un’aria da funerale. In città, i tedeschi non si facevano notare, mentre andavano instaurando la loro rigida amministrazione. I fascisti, chiassosi e spavaldi, vivevano di soperchierie. Si diceva, sottovoce, che gli sbandati-per evitare i tedeschi-prendevano la via dei monti e, dopo qualche tempo, si sentì parlare di “partigiani”. Ma non tutti gli sbandati erano animati  dalla volontà di combattere gli occupanti; taluni si erano dati alle razzie per sopravvivere. Una sera, un gruppo di questi individui, sprovvisti di armi, era capitato a casa minaccioso per impormi una…tassazione: in caso di rifiuto mi avrebbero sottratto i bambini che stavano dormendo. Pagai la taglia e se ne andarono. Quella visita, però, ne richiamò una seconda. Tre ragazzi, vestiti in modo disuguale e provvisti di una coccarda tricolore al bavero, bussarono alla mia porta per dirmi che..quei delinquenti erano stati individuati e che sarebbero stati puniti. I tre giovani, studenti dall’aspetto e dall’eloquio, rimasero a mangiare un boccone in mia compagnia parlandomi dei loro programmi che, data l’età e l’inesperienza, mi parvero azzardati. Poi, nel buio fitto, scesero verso la sottostante Bettola promettendomi una nuova visita l’indomani. Di due rammento la fisionomie: li rividi, poche ore dopo, uccisi. Uno era biondino, aveva i capelli ondulati e indossava una pseudo-uniforme; l’altro più alto, bruno e robusto, calzava stivali rigidi, neri. La Bettola, una località che sorge nella strettura dove un breve ponte supera il Crostolo, era diventato un posto di “sfollamento”. Il casone, adibito a luogo di sosta per i viandanti, era occupato da cittadini di Reggio che vi si erano sistemati per sottrarsi ai bombardamenti della città. Fra l’altro, i tre ragazzi mi avevano dichiarato che, prima o poi, avrebbero fatto saltare il ponte ed è da supporre che la loro puntata verso il fiume, fosse legata a quel piano. E c’è da supporre anche che quei figliuoli avessero delle conoscenze tra la popolazione della Bettola in buona parte da me conosciuta poiché percorrevo la strada del Cerreto due volte al giorno. Quella sera, ero ancora in piedi quando improvvisamente, udii alcuni spari che provenivano dal fiume. Poi, più nulla.

Stavo andandomene a letto allorché, dalla Bettola, ripresero a sentirsi spari; questa volta più nutriti e raffiche. Le scariche durarono una mezz’ora, poi tornò il silenzio. Un silenzio lugubre, interrotto da crepitii e grida. Il cielo, tenebroso e illune, si andava tingendo di rosso: il casone stava bruciando. Ero uscito nell’aia assieme al mio mezzadro Nearco, quando dal buio sgusciò uno dei tre ragazzi: quello di cui non rammento i lineamenti. Era sconvolto e parlava a fatica anche per l’affanno della corsa. Raccontò confusamente di uno scontro con i tedeschi, della morte dell’amico “biondino”-sul ponte-e del ferimento dell’altro, quello con gli stivali, durante la fuga, su per il ripido tratturo. Colpito da un inseguitore, lo aveva lasciato-morente-ad una cinquantina di metri da casa mia[3]. Mi raccomandò di soccorrerlo e scomparve. Non lo rividi mai più[4].

Subito, assieme al fido e coraggioso Nearco, mi avventurai giù per lo scosceso sentiero e, fatti pochi passi, inciampammo nel corpo senza vita del giovane senza stivali. Mentre, nell’oscurità, cercavamo di orientarci , di fare qualcosa, apparvero due persone anziane le quali abitavano nella vicina “Possessione”. In casa loro si era rifugiato un ferito grave che necessitava di cure.

Sotto di noi, scoppiettando, il casone continuava ad ardere; ne sentivamo il calore. Sarebbe stato indispensabile  nascondere il ragazzo morto per evitare che eventuali inseguitori coinvolgessero anche la nostra casa in una azione di rappresaglia. Ma c’era il ferito e corremmo da lui. Aveva la mandibola a penzoloni  e ci raccontò, a gesti, più che a parole, la sua avventura. Da lui apprendemmo le proporzioni della tragedia. All’arrivo dei tedeschi, lui si era nascosto nel cesso e quando si era reso conto che tutti gli occupanti il casone erano stati uccisi, era scappato dal finestrino arrampicandosi su per il monte. Scorto da uno dei “giustizieri”, questi gli aveva sparato una raffica raggiungendolo con un proiettile alla bocca.[5] Così conciato, aveva avuto la forza di inerpicarsi fino alla prima casa incontrata.

Poco potemmo per quel poveretto. Lo disinfettammo, lo fasciammo, ma nella zona non esisteva il medico; ed anche rintracciandone uno chi avrebbe osato, in quella notte di spavento, mettersi per strada in compagnia di un ferito della Bettola? Lo sistemammo alla meglio mentre la Bettola continuò a bruciare fino all’alba.

Combattuto fra il desiderio di rendermi utile e la minaccia che gravava sui miei bambini, trascorsi-impotente-il resto della notte sull’aia, con il bravo Nearco. Alle prime luci, da solo, mi buttai giù per i campi, verso il fiume, fiducioso nelle mie risorse di mediocre interprete. Presentandomi  sul luogo- ma sarebbe appropriato dire-sulla scena…-dello scontro, un soldato della SD, mi accolse con la maschine-pistole spianata.

Ostentando tranquillità, salutai in tedesco e in tedesco diedi le mie generalità giustificando la mia presenza. Abitavo nei pressi ed ero sceso per…sapere se avevano bisogno di me: il tutto pronunciato nel modo più scorrevole possibile e con l’accento intonato alla lingua di caserma.

Il militare, abbassò la guardia e la…grinta. Mi disse che erano stati attaccati, che avevano ucciso i partisanen e che tutto era finito. Stavano per rientrare. Girai lo sguardo e notai sulla riva del fiume, un gruppetto di soldati che si stava lavando, rassettando. Poco dopo partirono. Rimasi solo in un silenzio agghiacciante. Mi accostai all’area all’area solitamente adibita a sosta dei barrocci che rifornivano di legna la città e mi parve di intravedere, fra i tizzoni ancora accesi, i resti di un vestitino a pois. Esso mi ricordò una bella figliola, ospite del casone: pochi giorni prima, assieme ad altri sfollati, si era spinta fino al mio poderino in una allegra passeggiata. Mi avventurai tra i ruderi del fabbricato e, su un annerito cassone, scorsi un pacco con il mio indirizzo, che continuava a bruciare lentamente. Quasi di corsa, girai intorno a ciò che restava della costruzione senza notare tracce di violenza nei confronti dei suoi abitanti. Ne provai sollievo criticando in cuor mio, quanto narratomi, in preda al panico, dal ferito rifugiato alla “Possessione”. Rinfrancato, corsi al ponte dove, di traverso, giaceva il corpo del “biondino”. Scesi al fiume ed entrai in una casetta misera e priva di vita ma risparmiata dal rogo. In un letto semplice, due poveri vecchi uccisi a colpi di mitra.

Uscii inorridito e, nell’aia, incontrai una bimba-sui quattro anni-denutrita e spaventata[6]. Per caso era sfuggita al massacro. Stava dormendo in mezzo ai nonni, la raffica mortale l’aveva miracolosamente risparmiata ed un soldato germanico…generoso, accortosene, l’aveva poi nascosta dietro un pagliaio per sottrarla all’assassinio.

Insospettito, ritornai tra i resti del casone per osservare meglio quelle braci. Vi notai con raccapriccio resti umani e, sul retro- a terra- un cumulo di cervella! I tedeschi avevano ucciso tutti, grandi e piccini, sparando raffiche alla nuca, bruciando poi i cadaveri sui barrocci accatastati.

Riunendo le poche e imprecise notizie raccolte in seguito, cercai di ricostruire la tragedia che era costata la vita a più di trenta civili innocenti. I tre ragazzi avevano attaccato un automezzo germanico diretto a Casina, sede di distaccamento di polizia. Gli SD a bordo, pur subendo perdite, avevano reagito uccidendo il “biondino” e inseguendo gli altri. Poco dopo, erano ritornati con un autobus di rinforzo e avevano “punito” quelli del luogo…a modo loro.

Passato il comprensibile momento di sgomento profondo, le salme dei due partigiani, con l’aiuto di due militi poco convinti della giustezza della causa, le avviammo-su un carro agricolo-alla estrema dimora. Mi accompagnavano indefinibili rovelli ed interiori preoccupazioni: quale la fine del terzo partigiano? Quale il destino del ferito, sempre ospitato alla “Possessione”?…e la povera bimba sconvolta senza più i nonni trucidati?

Tormenti angosciosi che continuarono a dominare le mie giornate, dopo quella notte davvero indimenticabile. Paventando altre rappreseglie e pensieroso per l’identità razziale dei miei figlioli, decisi di lasciare il mio “rifugio” in collina confondendomi, quasi-mimetizzandomi tra la “folla” cittadina. Una folla minacciosa-rossa o nera che fosse-a me ugualmente sconosciuta.


[1] Tullio de Prato, Un pilota contadino…dal motore rotativo al jet…, Mucchi Editore, Modena 1985. Pag.279-283

[2] Non è stato trovato riscontro di questo episodio. L’unico caduto nelle ore dell’occupazione dell’aeroporto “Bonazzi” di Reggio rimane l’aviere Mario Dirozzi, ucciso il 9 settembre.

[3] Il caduto è probabilmente da identificarsi con Enrico Cavicchioni “Lupo”, comandante del distaccamento che condusse l’azione. Ferito mortalmente nello scontro sul ponte de La Bettola, fu portato verso Monte Duro dai compagni che lo lasciarono, ormai cadavere, proprio nelle vicinanze di casa De Prato (testimonianza di X Lolli, 16 aprile 2014).

[4] Su quanto accaduto nelle notti del 22 e 23 giugno si veda: M.Durchfeld, M.Storchi, “La Bettola. La strage della notte di S.Giovanni”, Istoreco, Comune di Vezzano s/c, 2014,

[5] Si tratta di Romeo Beneventi, gestore della locanda de La Bettola, scampato fortunosamente alla strage con la moglie e la figlia.

[6] Liliana Del Monte, scampata all’eccidio della sua famiglia, all’epoca aveva in realtà undici anni.

Il vecchio pozzo

Lì, sotto i prunus rossi e gialli, c’è il vecchio pozzo. Una cosa senza pretese, un semplice tubo di cemento con qualche filo d’edera arrampicato. Allora un coperchio rotondo di assi di legno inchiodate, oggi un cappello pesante di metallo, di un verde un po’ stinto.

Nemmeno prima che arrivasse l’acquedotto da quel pozzo si attingeva acqua da bere, lo si usava per raccogliere l’acqua piovana che andava ad integrare quella di una piccola falda poco più a monte della casa. Non serviva per l’acqua ma più modestamente come elementare frigorifero. Il padre d’estate teneva in fresco la sua birra, che faceva arrivare chissà da dove, chiusa in bottiglie con quella cosa a scatto basculante che chiamavano “macchinetta”. La birra e qualche panetto di burro, prodotto a pochi metri da lì, nel caseificio di famiglia.

Fine estate 1944, l’Appennino brucia ancora sotto i colpi dell’Operazione Wallenstein, case bruciate, stalle svuotate, bestiame razziato. I figli più grandi, allora ragazzi poco più che ventenni, erano andati fino a Bibbiano, dove nel campo sportivo, trasformato in lager di passaggio, era stato rinchiuso anche lo zio, don Bonini, il parroco di S.Andrea del Castello di Carpineti che aveva visto la sua chiesa colpita dalle cannonate tedesche sparate da Pantano, dall’altra parte della vallata. Era andata distrutta anche la sua canonica e con essa non solo quei bei mobili antichi, lascito di fedeli devoti, ma soprattutto tutti i suoi risparmi, quel sacchetto di “marenghini” d’oro che aveva accantonato per i suoi poveri, una volta che, ormai vecchio com’era, se ne fosse andato. Erano andati a riprenderlo, lui che aveva voluto seguire a piedi nel caldo e nella polvere i suoi contadini catturati, e lo avevano riportato a casa, per consentirgli almeno da lì a poco di arrivare a quella pace che la sua vita di povertà e dedizione gli aveva ben meritato.

La montagna saccheggiata, i partigiani sbandati, il borgo attraversato da soldataglia carica di bottino. In quella casa arrivarono verso l’imbrunire, una giornata calda. Chissà se davvero erano SS, in fondo bastava anche meno per morire in quelle giornate. Qualche parola smozzicata da un ufficiale che, cosa strana in quelle giornate, bussa prima di entrare. Sudato, i capelli biondi rasati corti e un ciuffo. Si siede a tavola e chiede “aqua..”, altri due si fermano sulla porta, un mitra a tracolla, l’elmetto legato al fianco.

Silenzio in casa, le donne si stringono verso il camino, i figli sono nascosti in solaio. Classe 1915 e 1918. Renitenti. Roba da finire contro il muro, quello mezzo intonacato, lì nella piazzetta vicina al voltone.

Il padre fa un cenno, abbozza un saluto all’ufficiale, poi rivolto alla figlia: “Paolina, vai a prendere la birra..”. La ragazza è giovane, ventun anni ancora da compiere, alta, i capelli ondulati. Si muove, fa qualche passo, poi si ferma: sulla porta i due, quasi appoggiati agli stipiti. Sorridono, una parola, due, fra loro, poi si scostano lo spazio appena per farla passare, per sentire da vicino il profumo di quella ragazza. Paolina esce e corre al pozzo, scosta le assi, le bottiglie sono dentro un secchio di lamiera tenuto da un mattone legato alla corda, come contrappeso. Prende le bottiglie ma c’è un altro secchio. Non quello solito del burro, è più in basso. C’è qualcosa di lungo avvolto in tela da sacco, umida. La scosta appena. Sono due canne di fucile, lucide, scure. Due piccoli occhi che la guardano. Per un attimo non respira. Poi, quasi per automatismo, lascia ricadere il coperchio di legno.

Trovare birra in una casa di italiani, gente infida. Chissà cosa avrà pensato quell’ufficiale, ma in guerra tutto può succedere e chiama gli altri due e riempiono i bicchieri. La madre, intanto ha preso del pane dalla madia. Pane e birra, e lo mangiano di gusto e annuiscono con qualcosa sul viso che assomiglia a un sorriso. Il soldato raccoglie anche le briciole e si prendono le due bottiglie vuote. Possono sempre servire con quella chiusura ermetica.

Anche il capo s’è alzato, si riaggiusta il ciuffo e bofonchia qualcosa che sembra un ” ‘giorno”. Sono usciti da qualche minuto prima che qualcuno in casa riesca ad aprire bocca. Passa mezz’ora buona prima che scendano i figli dal solaio. Paolina è ancora nell’angolo dove era tornata, la sorella le stringe un braccio e piange in silenzio.

La madre si muove verso il tavolo, raccoglie i bicchieri e dice al padre che si è quasi accasciato su una sedia: ” Iusfin (Giuseppe), stasera farai a meno della birra..”.

24 aprile

Un breve testo,  frutto di racconti e testimonianze su quel 24 aprile

Siamo arrivati correndo. Bill mi diceva: “stai giù”.

Qualche fucilata si sentiva ancora ma era più in là, verso il centro. Abbiamo girato dietro, da via Fabio Filzi, all’inizio tenevo il moschetto in mano ma facevo più fatica. Così me lo sono messo a tracolla, ma poi ho pensato che se dovevo sparare, il tempo di girarlo e sfilarlo magari ero morto. Così l’ho ripreso in mano ma non sapevo come tenerlo, era carico, e se mi partiva un colpo? Roba che Bill m’ammazzava lui prima che un fascista. Un fascista? Quelli sono già scappati domenica sera, come topi dalla nave che affonda. Li abbiamo visti, con le biciclette e i carretti lungo la via Emilia verso la Pieve. Che voglia di dargli una bella raffica, ma come si faceva, noi della squadra in Gardenia di armi ne abbiamo poche, i caricatori contati.

Nessuno spreco, ha detto Bedo, “verrà il momento di fare i conti”.

Adesso siamo piegati tutti e quattro, ognuno dietro un albero ai giardinetti. Di fronte, in mezzo, il distributore di benzina di Porta S.Stefano.

Siamo nascosti da dieci minuti. Sono sudato e ho fame, è quasi l’una. Per forza.

Di colpo sentiamo una specie di tuono, lontano ma non troppo. Sembrano canonate. E se i tedeschi si fermano e piazzano quelle bestie che abbiamo visto passare la settimana scorsa? E’ merda. Sparano delle pigne da quasi dieci centimetri, roba che ci passano due case come fosse burro.

No, noi qui stiamo fermi.

Oggi è martedì, giorno di mercato, ma nessuno ci è venuto a Reggio a fare affari. Piazza grande sarà vuota, mi piacerebbe arrivarci e vedere. Ma Bill ha detto di stare fermi, fra un po’ arriveranno anche gli altri, stanno distribuendo le armi. Potevano darmi un caricatore in più, però. Ne ho solo tre. Uno l’ho caricato e due in tasca.

Per fortuna li ho messi in quella buona, mica quella bucata che mia madre non ha fatto in tempo a cucirmi stamattina presto. “Aspetta, te la sistemo..”, mi ha detto. Figurati, aspetto che mi rammendi il buco proprio stamattina. Il 24 aprile. È due giorni che aspettiamo, forse è il giorno buono e io sto lì con mia madre con ago e filo!

Due caricatori e basta. E niente da mangiare. Dio bono, altro che cucirmi la tasca! Poteva darmi del pane e una mela, no?

Il tuono ora è meno lontano, tum tum, provo a contare, passano circa tre o quattro secondi fra un tum e l’altro. Speriamo siano gli americani che arrivano.

Questo però non è un tum. Questi sono passi, quasi cadenzati. No. Passi di marcia. Ci alziamo in piedi ancora dietro ai tronchi.

Sbircio un po’ ma non serve, Bill è più avanti.

Poi li vedo. Dio bono. Li vedo.

Uno, due, tre, quattro, sono cinque. Tedeschi. Senza elmetto, con quei berretti a visiera. L’ultimo è il più giovane, ha la giacca aperta e tiene il fucile a tracolla a rovescio, con la canna verso terra.

Sono all’altezza dell’ultima via di via Emilia. Marciano, cioè, camminano ancora un po’ in ordine, ma si vede che sono stanchi.

Guardo Bill. Guardo il mio fucile. Noi siamo quattro. Con tre fucili perché Cilloni ha solo una pistola. Dio bono. Loro sono cinque.

Quello che è in testa alla fila, si volta. Ci saranno quaranta metri. Non può non averci visti. Adesso si voltano anche gli altri. Non si fermano. Il primo ha detto qualcosa, è così vicino che vedo che parla.

Camminano e continuano a guardarci. Adesso sono esattamente di fronte a noi. Anche noi li guardiamo.

Non si fermano, ci guardano e camminano. Poi smettono di guardarci perché dovrebbero quasi voltarsi. Se ne vanno. Sono a cinquanta, sessanta metri, quasi al distributore in mezzo all’incrocio.

Adesso è facile, se Bill me lo dice punto il fucile e almeno l’ultimo, quello giovane, lo becco. Ma Bill non dice niente. Magari non gli piace sparare alle spalle.

Aspettiamo. Forse si nasconderanno dietro alle pompe di benzina e si metteranno a sparare.

Camminano. Se ne vanno.

Bill ci chiama e andiamo da lui. Ci guarda senza dire niente, poi con la testa fa un cenno verso via Emilia.

“Andiamo dentro, proviamo a entrare…”.

Ci muoviamo rasentando i muri, dopo aver passato via Monte Pasubio, Bill, che è davanti a me mi fa:

“Farsi ammazzare l’ultimo giorno..erano dei poveracci..”, quasi a giustificarsi.

Forse ha ragione e poi io, alla schiena, a quello là non avrei sparato.

C’è da liberare Reggio e ormai ci siamo.

Questa è la storia di una strada e di una ragazza

Questo è il testo che è stato letto ieri nel corso della visita guidata sui luoghi della repressione fascista a Reggio Emilia, nel quadro del progetto “Oltre il settantesimo”.

Questa è la storia di una strada e di una ragazza. Una ragazza che forse si chiamava Anna o Lucia o Silvana, il nome non ha molta importanza.

La strada è una strada del centro, qui vicina. Ma poi ci arriveremo.

La ragazza nel 1945 aveva 21 anni, compiuti da poco, suo padre un artigiano, sua madre una casalinga, altri fratelli e sorelle. Il posto diciamo fra Cavriago e l’Enza.

21 anni, in quell’inverno finale della guerra, Anna era una staffetta partigiana, in bicicletta, a piedi, un biglietto, una frase, una borsa. Una consegna rapida e via, la paura in gola, sulle strade di campagna. La paura addosso ma anche il pensiero di lui, in montagna, il “moroso” come lo chiamava scherzando sua sorellina, quella piccola. Lui in montagna, a fare il partigiano. Perché era giusto, perché lui aveva coraggio.

 

Era una mattina di febbraio, in piedi alla fermata della corriera, d’improvviso una voce dietro: “lei è…?” e due mani forti a prenderla. Una macchina nera, quei due in borghese di fianco. Senza una parola. E lei senza chiedere perché.

Giusto il tempo di riconoscere Reggio, i viali, la porta verso Parma. La macchina si ferma, una villetta, un grande cedro davanti.

In piedi davanti a una scrivania, le “generalità”, i “documenti”. Adesso c’è anche gente in divisa, la camicia nera e gli stivali.

“Signorina…” la chiamano, “così giovane”, le dicono. “Non abbia paura, qualche domanda…”.

Cosa rispondere, se sai che hai ancora l’ultimo messaggio infilato in quella piega della giacca? Quasi un colpo di fortuna essere chiusa dentro un gabinetto, in piedi, incantucciata nell’angolo per lo sporco e  la puzza. Ma almeno il biglietto sparisce.

Non c’è più luce fuori quando la fortuna finisce.

La vengono a prendere e stavolta non la chiamano più “signorina”, e sorridono e la guardano in un altro modo mentre la portano giù per le scale, in cantina.

Non erano voci straniere, non erano nomi incomprensibili. Quando le hanno strappato i vestiti, quando l’hanno legata. Si chiamavano Manzini, Berti, Barozzi. Nomi delle nostre parti, gente di Reggio. Non erano stranieri quando hanno voluto divertirsi-come diceva il capo- e l’urlo nemmeno le usciva dalla gola, fra l’acqua versata e i colpi che le arrivavano addosso. Forse il tempo si ferma in certi momenti e basta cercare di non pensare. Poi quando tutto finisce il tempo riprende, normale, quasi a dire “si ricomincia a vivere”.

Tre giorni a Villa Cucchi, centro storico, Reggio Emilia, febbraio 1945. Poi la sensazione, inconsapevole che ti prende giorno per giorno, in carcere, che forse sei salva, che forse si sono scordati di te. Altre Anna, altri Giorgio, Marcello. Tu lasciata indietro, lì in un cella ai Servi. Centro storico, Reggio Emilia. Fino a un martedì pomeriggio di aprile, le porte si aprono e capisci che è finita.

 

Questa è la storia di una strada e di una ragazza. Una ragazza che forse si chiamava Anna o Lucia o Silvana, il nome non ha molta importanza.

La strada è una strada del centro, qui vicina. Adesso ci arriviamo.

Ogni martedì si viene a Reggio, c’è mercato, c’è da andare in giro a fare commissioni. In quell’ufficio Anna deve esserci alle nove, per evitare la coda. Scende dalla corriera alla Sarsa e la strada è facile. Ma non può farla.

Perché questa è anche la storia di una strada sbagliata, una strada dove Anna non può passare. Una volta l’ha fatto, la prima volta. Ora non può più. Perché in quella strada, in centro, qui vicino, c’è un negozio, una banale negozio per gli altri. Ma non per Anna. Una volta c’è passata e sulla soglia c’era lui, uno di quelli che s’erano “divertiti”, una, due, altre volte. L’ha guardata, ha sorriso, i baffetti sui denti guasti. L’ha guardata e le ha fatto quel gesto.

Per sette anni Anna non ha potuto fare quella strada, la strada sbagliata. Ha allungato il cammino, ha affrettato il passo per essere in quell’ufficio alle nove, per evitare la coda. Per sette anni è stata ancora prigioniera.

Poi un martedì mattina, lì vicino, su un muro ha visto quell’avviso funebre. Ha letto il nome, il cognome, “è serenamente spirato” c’era scritto.

Ora poteva passare in quella strada.

 

Anna mi ha raccontato la sua storia, un pomeriggio, alla fine mi ha detto:

“Sai qual’è stata la cosa peggiore?” E io ho pensato a Villa Cucchi, a quei denti guasti, agli stivali, a una ragazza di 21 anni legata a un tavolo.

“La cosa peggiore, per me, è stata che, quando ho letto quell’annuncio, non ho provato niente. Solo una gran voglia di piangere perché avevo avuto quasi un momento di felicità. Quella è stata la cosa peggiore”.

m.storchi©2009

 

 

Luoghi dell’anima

Ci sono luoghi dell’anima, luoghi dove si torna sempre e non si vorrebbe mai lasciare, sono diversi nella vita, cambiano, mutano come noi. In cammino, affaticati giorno dopo giorno, tornare in quei luoghi, in quelle strade, ci da un poco di riposo. Poi si ritorna e allora come dice Montale “Un imprevisto è l’unica speranza”.

Berlino, 2014.

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Storie d’Italia: pillole per non dimenticare (3). La “piemontesizzazione” dell’Italia

Vítor_Emanuel_II_Itália Vittorio Emanuele II a caccia

La Germania moderna nacque nel 1870 con gli Hohenzollern, la Prussia unificò il paese. A noi toccarono i Savoia.

Perché fu proprio il Piemonte a diventare il “motore” dell’Unità?

 Furono vari gli elementi che giocarono a suo favore: i suoi tradizionali rapporti politici con la Francia (in lotta per scalzare il dominio austriaco in Italia) e il riuscito inserimento nello scenario europeo con la guerra di Crimea; aver avviato una serie di riforme economiche moderne, di cui lo sviluppo della ferrovia era il segnale più forte. Gli altri Stati erano tutti, direttamente o meno, sotto il controllo politico e militare austriaco e l’Austria era stata l’artefice di quell’assetto geopolitico. Non dimentichiamo che il grande architetto dell’Europa dopo il congresso di Vienna del 1815, il principe di Metternich, considerava l’Italia una semplice «espressione geografica».

Lo Stato Piemontese, pur basandosi su un sistema politico censitario, era l’unico ad avere una Costituzione liberale effettivamente operante nonché un sistema parlamentare. Lo Statuto Albertino, concesso nel 1848, fu mantenuto in vigore anche dopo la sconfitta nella prima guerra d’indipendenza. L’unificazione nazionale permise di estendere le libertà costituzionali all’intero Paese. Vennero inoltre avviate importanti riforme riguardanti la sanità e l’istruzione e si mise in movimento quel lento processo di democratizzazione della vita politica che ebbe come passaggio cruciale (mai sfruttato completamente) la riforma delle amministrazioni locali.

Non si può ignorare inoltre che l’Italia rappresentava agli occhi delle grandi potenze europee una questione irrisolta e potenzialmente esplosiva (come lo è stata per tutto il Novecento e oltre la penisola balcanica): la creazione di uno Stato unitario fu a un certo punto caldeggiata a livello diplomatico per impedire esiti pericolosi (una situazione di guerra permanente oppure l’ingresso stabile della Penisola nell’orbita di una delle potenze europee concorrenti). Ciò permise al nostro Paese di raggiungere quella «massa critica» in grado di metterlo al riparo dagli appetiti dei nostri ingombranti vicini europei.

 Chi pagò il prezzo più alto dell’unificazione?

 Fu soprattutto il Sud che, paradossalmente, ne fu il “motore” decisivo: se l’impresa dei Mille fosse fallita (cosa che non sarebbe spiaciuta neppure a Cavour) non avremmo avuto un’Italia unita, ma un Piemonte allargato fino al Lazio. La crisi del Regno borbonico era invece arrivata a una fase così avanzata che “bastarono” quei Mille, velocemente accresciuti fino a diventare una moltitudine, a far crollare l’intera struttura statale. I nostalgici hanno parlato – e ridicolmente ancora oggi parlano – di complotti massonici, britannici e simili fesserie, in realtà l’intero Stato borbonico era ormai al collasso. Garibaldi riuscì a far deflagrare quella situazione.

Il Sud fu decisivo ma i Mille vennero dal Nord: erano volontari, molti erano i giovani della classe media (la fascia sociale più debole nella storia nazionale), oltre la metà era di estrazione borghese, il resto erano operai e artigiani delle città. Tre quarti erano lombardi (434 su 1089), poi veneti (151), liguri (160), emiliani e toscani (121), ma c’erano anche siciliani (42) e calabresi (21). Circa un centinaio dei volontari che partirono con Garibaldi erano artisti o scrittori 8.

Fu proprio il Sud a essere caricato del peso dell’Unità, sin dall’inizio, sia in termini di delusioni che di costi umani. Le masse rurali, i “cafoni” si erano uniti ai garibaldini nella speranza di avere finalmente la terra da coltivare, come promesso loro, ma con l’avvento del nuovo Stato italiano la situazione rimase invariata. Il tanto sognato cambiamento sociale rimase una speranza. Ne è un esempio  la famosa considerazione del principe di Salina nel Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». I vari Stati furono unificati con un procedimento sbrigativo: con i plebisciti, anziché con assemblee costituenti che costruissero ex novo il nuovo Stato, come chiedevano i democratici. L’Italia nacque “piemontesizzando” gli altri Stati, nessun spazio fu dato alle autonomie locali, al federalismo di Cattaneo che, non accettando la forma monarchica, se ne andò in esilio in Svizzera, dove rimase fino alla morte. Le élites temevano che un percorso troppo “democratico” avrebbe portato alla dissoluzione del nuovo Stato che stava nascendo con una carenza di legittimazione popolare o che, peggio, trovassero spazio le istanze più radicali dei garibaldini e dei mazziniani. Vittorio Emanuele non ebbe neppure l’avvedutezza e la sensibilità politica di cambiare nome all’atto di divenire re del nuovo Stato.