Parole. Io. Noi

…In tal modo si è creata una koinè comune alla destra e si sono imposti nel dibattito politico-culturale temi quali: l’esaltazione dell’individualismo sregolato, la mitizzazione dello Stato minimo, il disprezzo del pubblico, il neonazionalismo soft, l’ostilità agli immigrati rasentando la xenofobia, l’adozione, spesso impropria, dei riferimenti religiosi uniti a un via libera a ogni intromissione della Chiesa, la riduzione dei diritti civili a optional, la glorificazione acritica dell’Occidente e del Grande Fratello d’oltre Oceano, l’euroscetticismo, l’insofferenza per i checks and balances costituzionali a fronte dell’idolatria populistica del volere del popolo (salvo quando si schiera per quasi i 2/3 contro le proposte dei geni di Lorenzago nel referendum, presto dimenticato, di due anni fa). Tutto questo non si è costruito in un giorno: è il risultato di un impegno “metapolitico” di anni. E ora se ne vedono i frutti.

Pietro Ignazi, L’egemonia del cavaliere, L’Espresso (15 maggio 2008).

Da dove ripartire in questa specie di deserto che le ultime elezioni hanno lasciato?
E se ripartissimo dalle parole e, prima ancora, dai valori? E se cercassimo, per una volta, di fare il punto, di riflettere, anziché cercare la nuova, ennesima, incerta, scialuppa di salvataggio? In questi anni il centro-sinistra è stato tutto (ecologista, blairiano, clintoniano, veltroniano, prodiano, dalemiano e chissà cos’altro ancora) e in questa disperata rincorsa alla fine si è ritrovato, come lo Zelig di alleniana memoria, un essere vuoto e senza identità, pronto stavolta ad accettare la pietà del vincitore e a plaudire ad una inedita civiltà di rapporti, come se la mortadella, i cappi e i rutti fossero venuti dai banchi del governo e non da quelli, scomposti e decomposti, della ex-opposizione.
E poi ha ancora senso parlare di un “noi”? In questi anni le leggi elettorali prima hanno riportato la figura del Podestà nei nostri Municipi, un Podestà da scegliere a scatola chiusa ogni cinque anni con un atto di fede più che di scelta politica e di partecipazione democratica, una legge che ha soltanto preparato la nomina dei nostri eletti a limitata rappresentanza, limitata visto che, appena possibile, lo strumento delle primarie viene aggirato fra il tripudio di apparati e oligarchie.
Noi, che in questi anni siamo stati tante volte redarguiti di immaturità ed inesperienza, come se per perdere le elezioni, come è accaduto, fosse necessaria la maturità e l’esperienza dei nostri esausti apparati dirigenti.
Allora ripartire dai principi, dai valori e dalle parole. Emergenza. L’emergenza come norma. Ma davvero pensiamo che in un paese dove la camorra ha ucciso 230 persone negli ultimi due anni e 3000 (tremila) nell’ultimo ventennio i Rom siano l’emergenza? Tanto da richiedere un Commissario straordinario? Parole. Attenzione. Con gli ebrei si iniziò così. Nell’indifferenza generale. E con gli ebrei ad Auschwitz c’erano proprio i Rom, inghiottiti dagli stessi forni e dall’amnesia generale.
Perché i Rom non sono persone, portatori di diritti e doveri. Sono un problema. Da commissariare, da rinchiudere, da cancellare. Già visto, purtroppo. Ma la “gente” vuole così. E noi senza altre idee o parole accettiamo il lessico. La sicurezza, parola magica. Sicurezza. Una sicurezza che ci verrà proprio da chi parla da anni di fucili, pallottole, bande armate pronte al sacrificio? Ma chi ci difende da questa “sicurezza”? Parole.
Parole come accoglienza, multiculturalismo, sparse a piene mani in città sempre più brutte, amministrate da invisibili, sempre più lasciate all’illegalità, minuscola o maiuscola, come se il fare i propri comodi fosse di sinistra piuttosto che di destra. Una illegalità minuscola che scandalizza per primi proprio i nuovi arrivati, illusi di arrivare in un paese civile e costretti a confrontarsi con i soliti italiani furbastri, dediti al piccolo imbroglio, all’infrazione quotidiana. Perché non adeguarsi, allora? Legalità, la parola, ma legalità per tutti, perché non ci siano furbi di serie A e furbi di serie B.
Egemonia culturale si chiamava una volta. La koinè che Ignazi ricordava, la koinè trionfante di una destra che con i suoi “mezzi di distrazione di massa” ha costruito, giorno dopo giorno, uniformando i gusti, il tempo libero, la scala (o forse meglio la scaletta) dei (dis)valori. Parole. Scompare il noi, trionfa l’io. E con l’io la paura. La chiusura. Il vecchio vizio italico del particolare. Il vizio di un paese incattivito, insicuro di sè, che non riesce ad immaginare un futuro.
Un lessico che ha conquistato tutti. Delitti partigiani. L’inutile 25 aprile. Il vecchio antifascismo da gettare via, per essere finalmente cosa? Moderni? Adeguati ai tempi. Come “loro”. Sempre più numerosi e vincenti (per ora).
E allora anch’io accetto, per un momento, il lessico vincente e dico “io”. Io non ci sto, perché io non sono come loro, forse non migliore, peggiore probabilmente. Ma non come “loro”. Mai. E come me tanti, silenziosi, dispersi. Tanti “io” che fanno, di nuovo, un “noi”.
Noi che crediamo nella dignità e unicità della persona, di ogni persona. Noi che crediamo nel valore della cultura, del lavoro, massacrato proprio dai “nostri” prima che da “loro”.
Noi che conosciamo la precarietà che devasta, che non ti consente nessun futuro. Noi che le leggi le rispettiamo tutte, per convinzione e non per dovere. Noi che ancora crediamo che si possa essere felici solo se lo saranno anche gli altri. Noi che dobbiamo insegnare ai nostri figli a cercare un futuro lontano da questo paese perché non ci hanno mai dato la possibilità di far qualcosa perché le cose andassero in un altro modo. Noi che abbiamo imparato che si può anche scegliere la strada più difficile perché qualcun altro lo ha già fatto prima di noi in tempi molto più difficili.
Noi, “noi” ci siamo ancora, invisibili e silenziosi, stanchi ma testardi e un po’ bastardi. Noi, tante persone uniche e irripetibili. “Noi”. Mai come “loro”.

Grecia, Francia, Italia, la gioventù bruciata

…La rivolta di Atene, per alcuni versi, richiama, inoltre, le mobilitazioni che attraversano l’Italia da alcune settimane. Le differenze, in questo caso, sono però ancor più evidenti. Perché in Italia la protesta giovanile non nasce da un episodio violento e non ha assunto toni violenti (se non in alcuni casi molto specifici). Perché ha fini e bersagli squisitamente politici. I provvedimenti del governo in materia di scuola e università. Tuttavia, fra le mobilitazioni vi sono i punti di contatto altrettanto palesi. In Italia come in Grecia i protagonisti sono gli studenti, i teatri le università. In Grecia come in Italia la popolazione studentesca era da tempo in ebollizione, per gli stessi motivi. L’opposizione aperta contro la riduzione delle risorse e degli investimenti sulla scuola – e in particolar modo sull’organizzazione della ricerca e dell’università – pubblica.

Se colleghiamo questi tratti, tanto diversi in apparenza, si delinea un profilo comune e largamente noto. Perché le rivolte investono i giovani, sia gli studenti che i marginali, delle classi agiate e dei gruppi esclusi. I bersagli sono, in ogni caso, le istituzioni di governo, il sistema educativo e le forze dell’ordine, il sistema politico e in particolar modo i partiti e gli uomini di governo. Il denominatore comune di queste esplosioni sociali sono i giovani, occultati e vigilati da una società vecchia e in declino, da un sistema politico im-previdente, inefficiente e spesso corrotto. Schiacciati in un presente senza futuro. Cui sono sottratti i diritti di cittadinanza. Costretti a una flessibilità senza obiettivi. Il che significa: precarietà.

La violenza, in questo caso, diventa un modo di dichiarare e gridare la propria esistenza. Loro, invisibili. Inutile ignorarli, fare come se non ci fossero. Ci sono. Studenti, precari, di buona famiglia oppure marginali e immigrati, politicizzati o apertamente impolitici e antipolitici. Esistono. E se si finge di non vedere si accendono, bruciano. Fuochi nella notte che incendiano le città.

(Ilvo Diamanti, Repubblica 9.12.2008)
http://www.repubblica.it/2007/02/rubriche/bussole/giovane/giovane.html

Indici e professionisti

Premetto che in campo economico sono del tutto impreparato. Ne capisco quanto un tapiro di metempsicosi. Però so leggere e ho l’antico vizio del collezionismo. Leggo e archivio. Immagazino dati, non si sa bene se per insicurezza esistenziale o per previdenza professionale. Comunque sia, ho il mio archivio-stampa che cresce giorno per giorno da anni. Bene, oggi mi capita sott’occhio un articolo “Piazza Affari non trema più” di tale Maurizio Maggi, immagino esperto (lui sì) di analisi, gestioni, manovre di bilanciamento e simili delizie. La fonte è L’Espresso del 29 maggio 2008.
Cito “Il punto più basso degli ultimi tre anni, l’indice Mibtel del listino milanese lo ha toccato poco più di due mesi fa, giovedi 20 marzo, a quota 23.114. Ora sono in tanti a ritenere-e sperare-che quella quota possa rivelarsi il “pavimento” del listino italiano, il fondale da cui, pur senza esaltarsi troppo, non si può che riemergere”.
Sono andato a vedere il Mibtel di oggi, 5 dicembre: 14.088. Perdita in 12 mesi:-49.6%, perdita in 6 mesi:-39,6%.
Non si può che riemergere? Pavimento? Voi cosa fareste se qualche “professionista” scambiasse il pavimento per il tetto che sta crollando? A me vengono in mente quei film catacomici degli anni ottanta dove un pazzo si trovava ai comandi di un jumbo nella beota indifferenza dei passeggeri. Tutti felicemente avviati allo schianto finale.
Sarà un caso che la Borsa Valori di Milano abbia sede a Palazzo Mezzanotte? Non Palazzo del sorriso o Belgioioso. Palazzo Mezzanotte. Nomen omen?
E comunque: Professionisti. Iperpagati e iperincapaci. Che una cosa sia legata all’altra? Oltretutto su scala cosmica. Professionisti: Come i nostri leader della sinistra, professionisti perchè solo con tanta professionalità si poteva portare il paese al punto in cui siamo. Un governo provvisorio di cialtroni, nani, ballerine e “gemelline” e dall’altra parte professionisti del nulla e della sconfitta, con le chiappe al caldo per sè e congiunti. Iperpagati e iperincapaci.

Ma come si fa? (Quando la realtà supera la fantasia)

Ma come si fa? Si può sognare di vivere non dico in un paese avanzato, ma almeno in un paese minimamente civile? Dove ogni mattina, alzandosi e leggendo la stampa nazionale, non si rischi il tracollo epatico, il rigurgito morale, il vomito istituzionale? Non si chiederebbe tanto, solo un po’ di “normalità”, civismo, senso etico delle istituzioni e altre cosette simili.

C’eravamo appena ripresi dalla scena penosa di una magistratura che si scanna in lotte da bande da quartiere, di un PD sempre più coinvolto in questioni in bilico fra l’affarismo e il codice penale, avevamo anche represso un sentito disgusto nell’apprendere che il nostro Presidente del Consiglio provvisorio aveva ricevuto nella sua residenza non uno scienziato, un ambasciatore, un inventore, un circumnavigatore in solitaria, bensì due “gemelline” (si chiamano così adesso?) reduci dall’Isola dei Famosi e tutto ciò si sembrava bastevole, almeno per qualche giorno. Invece no.

Stamattina sul Corriere (http://www.corriere.it/politica/08_dicembre_05/dvd_craxi_berlusconi_scuole_paola_di_caro_3f546e62-c29a-11dd-8440-00144f02aabc.shtml) veniamo informati che il Presidente del Consiglio provvisorio ha firmato la presentazione di un succoso DVD su Bettino Craxi, in questa presentazione “scrive dunque Berlusconi — [il DVD] andrebbe proiettato anche nelle scuole, per dare alle nuove generazioni i necessari spunti di riflessione sul modo in cui è finita la Prima Repubblica e sulla falsa rivoluzione giudiziaria che portò alcuni settori della magistratura a teorizzare la supplenza delle toghe sulla politica». Craxi invece — ne è convinto il premier che del leader socialista fu anche grande amico personale — primo «fautore delle riforme istituzionali, è stato un precursore della sinistra moderna di cui in Italia, purtroppo, non si vede ancora una traccia definita».

In quale paese un qualunque politico potrebbe fare l’apologia di un pregiudicato morto contumace senza alcuna conseguenza per la propria carriera o senza suscitare una reazione di rigetto? La risposta è nota.

Bettino Craxi (1934-2000)

  • Condannato in via definitiva a cinque anni e sei mesi per le tangenti Eni-Sai (corruzione)
  • Condannato a quattro anni e sei mesi per le tangenti della Metropolitana milanese (finanziamento illecito)
  • Condannato in secondo grado a tre anni per Enimont (finanziamento illecito)

  • Condannato a cinque anni e nove mesi per le tangenti Enel e a cinque anni e nove mesi per il Conto Protezione (bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano)

  • Salvato dalla prescrizione in appello dopo una condanna a quattro anni in tribunale per le tangenti di Berlusconi tramite All Iberian

  • Imputato in primo grado per le bustarelle dell’autostrada Milano-Serravalle (corruzione) e per quelle della cooperazione col Terzo Mondo, nonché per frode fiscale sui proventi delle sue varie tangenti

 (fonte:http://www.quimilanolibera.net/wp-content/uploads/2008/01/le-condanne-di-craxi.pdf)

Manovalanza democratica

Giovedì 27 febbraio, ieri, ho presentato il mio libro “Il sangue dei vincitori” (ed.Aliberti) a Bergamo. E’ stata la 22ima presentazione in 6 mesi. Un piccolo libro su una provincia che interessa così tanto anche in giro per l’Italia. Forse perchè la gente è stufa di sentirsi distruggere la propria storia sotto gli occhi, ogni giorno. Forse perchè vorrebbe vivere in un paese diverso e migliore dove il fascismo sia un argomento davvero solo per gli storici e non la quotidianità nelle nostre strade, sui giornale e i media. Forse perchè tanti hanno voglia di vivere davvero pienamente una dimensione europea, senza vivere in bilico fra il Paraguay e il Kazachistan, con cialtroni al governo e tanti quaquaraquà all’opposizione. Forse. So però che la gente, nel ringraziare un modesto storico di provincia/quartiere, voleva esprimere un senso forte di cittadinanza, di orgoglio per essere diversi in un paese orribile. Girando in provincia e in mezza Italia ho avuto questa fotografia, esiste un paese migliore, fatto di gente “per bene”, forse una minoranza, nel paese dei furbi e delle veline, ma un paese reale, un patrimonio etico e politico che sarebbe ora trovasse davvero una classe dirigente alla sua altezza.
Grazie ad Eugenia, Santo, Barbara e Damiano per il pomeriggio bergamasco, un piccolo atto, fatto insieme agli amici presenti, di “manovalanza democratica”.