Il primo giorno d’inverno. Cervarolo. La storia e la memoria

Cervarolo. La storia e la memoria

La strage del 20 marzo 1944 insieme a quella della Bettola del 24 giugno rappresentano i due episodi più drammatici in provincia di Reggio Emilia di quella che fu la guerra “auch gegen Frauen und Kindern (anche contro donne e bambini)”  condotta dalle truppe tedesche e fasciste nei venti mesi di occupazione del paese. Due stragi, diverse per dinamiche, autori, tipologia delle vittime e costruzione della memoria , che hanno però lasciato un segno forte nell’identità collettiva.
Ma se la strage di Bettola non poteva far riferimento ad una comunità univocamente individuata (le vittime erano ospiti occasionali della locanda sulla SS63), Cervarolo, invece, è riuscito ad assumere e rielaborare il proprio tragico vissuto non solo con la ricostruzione fisica del paese nel dopoguerra ma anche con la conservazione di una memoria collettiva e di rapporti intracomunitari forti, suggellati ogni anno dall’incontro conviviale che si tiene proprio nello stesso luogo dell’eccidio, quasi a “riconsacrare” quel luogo di morte e riconsegnarlo alla sua funzione storica di luogo di lavoro, d’incontro e di festa, tragicamente infranta in quel lunedì di marzo.
Una memoria forte e una salda consapevolezza, sorretta nei decenni anche dalle amministrazioni pubbliche e dalle associazioni partigiane, ma che non aveva mai potuto trovare il riscontro della giustizia a sanzionare le responsabilità di quel crimine. Prima la concessione dell’amnistia verso i fascisti repubblicani aveva cancellato, già nel 1946, le colpe di quanti, seppur con compiti di supporto e spionaggio, avevano contribuito alla tragedia, poi la scelta, compiuta nel 1960 di relegare in un armadio presso la Procura militare di Roma i 695 fascicoli relativi alle 2273 stragi compiute in Italia da tedeschi e fascisti  ha impedito fino al maggio 1994, quando i fascicoli furono ritrovati ed inviati alle Procure Militari competenti per territorio, di garantire a quella stessa comunità di Cervarolo, fra le tante altre, un percorso di giustizia e di affermazione di una verità giudiziaria .
L’impegno, la capacità e la caparbietà (si consenta il termine) degli inquirenti in questi anni hanno portato all’avvio di questo percorso di giustizia e verità.

Sulla strage, in questi 65 anni, sono stati editi tre testi  ma solo con gli studi di Carlo Gentile  e il saggio di Giovanni Fantozzi  del 2006 è stato possibile inquadrare in maniera compiuta e precisa, ricorrendo finalmente ad inequivoche fonti documentarie tedesche, gli avvenimenti del 20 marzo a Cervarolo nell’ambito delle azioni di strage e rappresaglia condotte dall’esercito tedesco sul nostro Appennino nella primavera del 1944.
Diversamente da quanto verificato dalla storiografia sull’argomento in relazione ad altre stragi compiute da truppe tedesche e fasciste nel 1944, non è si è consolidata, nel caso di Cervarolo, una memoria “divisa”, cioè, una memoria sostanzialmente antipartigiana che identifica nelle azioni armate delle bande partigiane operanti nella zona la causa scatenante della distruzione portata dalle truppe tedesche con il sostegno logistico e operativo dei reparti repubblicani. Al contrario proprio la riapertura delle indagini e l’avvio del processo hanno confermato la partecipazione compatta dei congiunti e discendenti delle vittime alla richiesta di una punizione dei responsabili, i militari tedeschi della Divisione Hermann Göring.

Solo negli ultimi anni, nel clima di un generalizzato e sconclusionato “processo alla Resistenza”  anche la strage di Cervarolo è stata utilizzata strumentalmente in chiave antipartigiana, suggerendo pretestuosamente un legame causa-effetto tra gli avvenimenti seguenti allo scontro di Cerrè Sologno (fucilazione di alcuni prigionieri a Monte Orsaro) e l’azione di rappresaglia del 20 marzo. Un legame che non è possibile rintracciare non solo in nessun documento ufficiale tedesco sull’accaduto, dove l’obiettivo Cervarolo viene identificato in quanto luogo di appoggio e residenza di “ribelli” e l’azione viene decisa nonostante la consapevolezza dell’avvenuto spostamento delle bande partigiane dalla zona (e non viene quasi fatta menzione dell’uccisione di propri militari), ma neppure nella stessa lettera del vescovo Brettoni inviata, quasi un mese dopo, a Papa Pio XII, informandolo dell’accaduto:

Ho chiesto al capo della Provincia e al Comandante della Milizia quale reato sia stato riconosciuto o attribuito al parroco don Pigozzi per scusare un trattamento così inumano, con anche il ludibrio della denudazione. Nulla sono riuscito a conoscere di concreto se non che, essendo Cervarolo tenuto come molto favorevole ai partigiani, i tedeschi hanno compiuto contro di esso una spedizione di rappresaglia, non solo per punire il passato ma per incutere terrore per l’avvenire. Ma il parroco si era tenuto sempre alieno, assolutamente, da qualsiasi favoreggiamento ai partigiani, dai quali, anzi, temeva qualche rappresaglia. La morte del buon parroco don Pigozzi ha destato in tutta la Diocesi, specie nel clero, molto rimpianto .

La lettura dell’accaduto è tutto in quella rappresaglia compiuta “non solo per punire il passato ma per incutere terrore per l’avvenire.”
E’ la stessa vicenda della borgata prima e dopo l’8 settembre a decretarne la condanna alla distruzione. In quel lunedì viene in qualche modo a soluzione il contrasto di lungo periodo fra il villaggio sovversivo di Cervarolo, fatto di operai, contadini migranti e antifascisti e i limitrofi centri fascisti, il capoluogo Villaminozzo ma, soprattutto, Gazzano. Cervarolo viene colpita con una strage insieme punitiva e preventiva, preparata con una sorveglianza attenta prima e poi non solo con l’azione di due spie locali  che informeranno e guideranno i militari, ma anche con l’invio di spie giunte dall’esterno nelle settimane precedenti .
Da questi elementi matura la tragedia di Cervarolo che si compie in una fase in cui si fronteggiavano, sulle opposte sponde, le diverse debolezze delle parti in campo. Da un lato una resistenza ancora embrionale, che chiude la sua prima fase dopo il vittorioso scontro di Cerrè Sologno con il ferimento dei suoi comandanti e con lo sbandamento della banda reggiano-modenese che aveva condotto le azioni delle prime settimane di lotta. Dall’altro la tragica alleanza fra un rinato fascismo, già macchiatosi delle stragi dei Cervi e di don Pasquino Borghi, ma incapace a svolgere i compiti di controllo del territorio (e costretto per questo, nei confronti dell’alleato, a ingigantire, scientemente, il pericolo effettivo dei “ribelli”) e la presenza tedesca ancora vincolata alla prima fase di repressione delle bande, quella che poteva immaginare una loro completa distruzione attraverso attacchi mirati di altissimo impatto svolti da truppe specializzate (come era la Divisione Hermann Göring) nelle politiche di massacro di civili.

Xenofobia l’anomalia italiana (Paolo Soldini)

jobbik_wideweb__470x3580.jpgIl 16 percento ottenuto dai sedicenti liberali della Fpö nelle elezioni presidenziali austriache conferma che in quasi tutti i paesi del continente esiste ormai uno zoccolo duro di consensi, tra il 7-8% e il 20%, per partiti che, in modo diverso, si richiamano a valori e princìpi dell’estrema destra. Alcuni esprimono una “protesta contro la storia”: sono i movimenti che rivalutano i vari fascismi europei e il nazismo, come i Republikaner tedeschi, l’estrema destra russa, magiara o baltica. Per altri, il motivo fondante non è l’occhio al passato. Il Front national di Le Pen, il partito popolare dello svizzero Blocher, gli olandesi di Wilders, il belga Vlaams Blok, il partito del popolo danese di Pia Kjaersgaard ritengono di cogliere ed esprimere al meglio lo Zeitgeist: la paura degli “invasori” stranieri e della globalizzazione, il rifiuto di ogni idea di cessione di sovranità e l’ostilità contro la Ue, un evidente egoismo sociale, apertamente ammesso, sia su base statuale che regionale. Ciò che accomuna tutti i partiti di destra, del primo e del secondo tipo, sono da un lato il razzismo, la xenofobia e un forte conservatorismo in materia di valori morali privati, dall’altro lato il populismo costruito intorno a figure carismatiche. Tutti interpretano un mito comunitario, che può esprimersi nel nazionalismo classico o in un regionalismo che costituirebbe la trama “moderna” dell’”Europa dei popoli”. La retorica regionalista spinge a prospettare ipotesi di rottura della comunità nazionale per le aree “ricche e represse, incomprese e tartassate dal centro”. Come si colloca in questo contesto europeo la Lega nord? Il nocciolo della politica leghista pare fortemente collegato al patrimonio consolidato dell’estrema destra continentale. Xenofobia e razzismo, ostilità verso la Ue, (in)cultura localista, perenne rivendicazione di risorse e “diritti” sequestrati dallo stato centrale. Il fatto che un movimento intimamente eversivo abbia acquisito una sua rispettabilità e oggi partecipi al governo del paese è una delle straordinarie anomalie italiane. Ci sono paesi europei nei quali quel che dicono e ciò che fanno in tema di razzismo e xenofobia ministri leghisti verrebbero considerati se non reati quanto meno farneticazioni da stigmatizzare nella politica e nei media. Qui li consideriamo intemperanze folkloristiche, fossili di un estremismo superato. Le analogie con l’estrema destra europea sono invece costitutive per la Lega. Il secessionismo non è stato abbandonato: è stato costretto nei panni di un federalismo che il sistema politico accetta come una prospettiva sensata pur non avendo in Italia alcuna tradizione, né alcuna storica spinta reale ed essendo immerso, oggi, in una fitta nebbia sul che sarà, come sarà, perché. L’egoismo “comunitario” non è diverso da quello che si manifesta altrove e la spia di questa identità della Lega sono la xenofobia e il razzismo. È il piano sul quale nessun processo di addomesticamento moderato appare credibilmente in atto.

http://www.unita.it/news/paolo_soldini/97956/xenofobia_lanomalia_italiana

foto: militanti del movimento fascista ungherese Jobbik.

Ancora sul 25 aprile

«Immaginavo che il 25 Aprile fosse la fine di un periodo nero, di una scatola chiusa, buia, in cui eravamo finiti tutti dentro, con fratelli che hanno cominciato a picchiarsi ed uccidersi.
Cos’è il 25 Aprile? Vuol dire dimenticare che esiste il rosso e il nero. E che questo è un popolo che sa trarre il meglio di sé ma se resta unito. Per guardare positivamente al futuro bisogna mettere da parte le ideologie, le contrapposizioni. In democrazia è giusto che ci siano confronti su idee diverse. Ma non sul 25 Aprile».

http://linformazione.e-tv.it/archivio//20100426/04_RE2604.pdf

Parto da queste parole pronunciate a Guastalla il 25 aprile dall’on.Alessandri perché mi sembrano particolarmente significative ed efficaci. Semplici, di (apparente) buonsenso. Capaci di catturare il “consenso”, come i risultati elettorali della Lega ci confermano. Ad un pubblico ormai televisivamente addomesticato e conformato, del resto, questo ci vuole: semplicità e (apparente) buonsenso. Se il neurone sonnecchia passa tutto. Non ci si scuote come per le panzane di Filippi o le iniziative simil-edilizie dei crociferi locali. Si ascolta e si ingoia, buon senso e (apparente) equilibrio. Peccato che, appena riusciamo a risvegliare il secondo neurone ci accorgiamo che così non è. Cos’è il 25 aprile per il rampante esponente leghista? Un assoluto nulla. 25 aprile è “dimenticare che esiste il rosso e il nero”? E allora perché l’abbiamo fatta quella guerra sacrosanta, per diporto, per noia? E poi perché l’abbiamo fatta, una guerra anche civile, se è vero che “questo è un popolo che sa trarre il meglio di sé ma se resta unito”. Unito come? Dopo vent’anni di dittatura e una guerra? Unito fra chi ha bastonato e chi è stato bastonato? Unito adesso che ci sentiamo insultare ogni giorno come “nemici”? Unito forse nel difenderci da chi “italiano” non è? Da chi non ha avuto il “bene” di nascere in questa terra fortunata?
Ma per fortuna l’onorevole di (apparente) buonsenso ha la soluzione: “Per guardare positivamente al futuro bisogna mettere da parte le ideologie, le contrapposizioni”. Bene, finalmente, era ora. Possiamo concentrarci sulle cose serie e importanti per una comunità: chiudere le buche, asfaltare le strade, far pagare le rette ai poveracci altrimenti gli affamiamo i figli. Roba seria. Finalmente. E noi che pensavamo contassero invece cose come la dignità dell’individuo, l’uguaglianza, la legalità. Ma possiamo stare tranquilli “In democrazia è giusto che ci siano confronti su idee diverse”: lei come preferisce l’asfalto? Drenante o no? E la buca? Chiusa con pietrisco o catrame?
Si può discutere su tutto, dice il nostro onorevole, ma non sul 25 aprile. Del resto, come dargli torto? Come si può discutere sul nulla?

Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà.

Giordano Cavestro (Mirko)

Di anni 18 – studente di scuola media – nato a Parma il 30 novembre 1925 -. Nel 1940 dà vita, di sua iniziativa, ad un bollettino antifascista attorno al quale si mobilitano numerosi militanti – dopo l’8 settembre 1943 lo stesso nucleo diventa centro organizzativo e propulsore delle prime attività partigiane nella zona di Parma -. Catturato il 7 aprile 1944 a Montagnana (Parma), nel corso di un rastrellamento operato da tedeschi e fascisti – tradotto nelle carceri di Parma -. Processato il 14 aprile 1944 dal Tribunale Militare di Parma – condannato a morte, quindi graziato condizionalmente e trattenuto come ostaggio -. Fucilato il 4 maggio 1944 nei pressi di Bardi (Parma), in rappresaglia all’uccisione di quattro militi, con Raimondo Pelinghelli, Vito Salmi, Nello Venturini ed Erasmo Venusti.

Parma, 4-5-1944

Cari compagni, ora tocca a noi.                                                               

Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d’Italia.                                                                                     
Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella.                                                                     
Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile.                             
Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.                   
La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio.       

Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà.

25 aprile, ora e sempre Resistenza (A.D’Orsi)

25aprile1945.jpgIl 25 Aprile non può, nemmeno a 65 anni di distanza, essere considerata una tra le tante date celebrative: oggi più che mai quella data vibra di passione civile, e non soltanto di memoria storica. In fondo, è un quindicennio che la vittoria sul nazifascismo è ritornato ad essere un momento essenziale della battaglia politica, oltre che culturale, in questo sfortunato Paese. Bisogna, paradossalmente, dire grazie a Silvio Berlusconi, e ai suoi alleati-succubi, se ora noi crediamo di nuovo, con forza, nell’importanza della «celebrazione» del 25 Aprile. E non è un caso che in tante parti d’Italia, le vecchie sezioni dell’Anpi (la gloriosa associazione dei partigiani), siano state rivitalizzate da manipoli di giovani, mentre via via scomparivano, ad uno ad uno, i reduci di quella guerra fondativa della nostra Repubblica. Negli ultimi tre giorni, personalmente, sono stato invitato a parlare, da circoli Anpi, a Carpi, a Viterbo, ad Avellino. E in tutti i casi, si tratta di circoli nei quali i giovani – trentenni – hanno raccolto il testimone dai vecchi combattenti, e tentano, ben oltre la data canonica, di difendere princìpi, valori, e ideali dell’antifascismo.

Dopo i decenni dell’azione prima sotterranea, poi via via più palese del revisionismo, giunto negli ultimi anni a trasformarsi in «rovescismo», volto non solo a delegittimare i risultati politici della lotta partigiana, ma a rovesciare la verità acclarata dei fatti, siamo giunti alla resa dei conti finale. L’attacco prima storiografico, poi scopertamente ideologico, infine direttamente politico, alla Resistenza, è diventato attacco alla Costituzione Repubblicana, e ai fondamenti stessi dello Stato di diritto. Il Piano Gelli, in sostanza, con Berlusconi, è giunto alle soglie della sua piena realizzazione, e se la banda che si è impadronita del potere non è ancora riuscita a portare a termine il suo disegno di scasso istituzionale, ciò è dovuto anche alla mobilitazione permanente che, pur tra enormi difficoltà, si è manifestata e si manifesta ogni giorno, dovunque in Italia, dalle Isole alle Alpi, dal Sud che resiste alla mafia, alla camorra e alla ‘ndrangheta, al Nord che non vuole saperne di indossare la camicia verde, e men che meno di sfilare adunato in «ronde padane».

La guerra che si combatté in Italia fra l’8 settembre del ’43 e il 25 aprile del ’45 contenne, come ormai è noto, tre distinte guerre. Innanzi tutto, si trattò di una guerra di liberazione nazionale: non a caso parliamo di «liberazione», come sinonimo di Resistenza. La guerra contro un alleato trasformatosi nemico, occupante il suolo della patria. Guerra nazionale, dunque, anche se combattuta da un esercito di irregolari, anzi da un non esercito, contro due eserciti regolari, quello nazista e quello repubblichino, egualmente feroci.

In secondo luogo, una guerra sociale: lotta di classe, per un altro genere di liberazione, non più dal nemico esterno, ma dal nemico interno, il nemico di classe: fu l’improvviso ritorno, dopo le avvisaglie del marzo ’43, del protagonismo di vasti strati di ceti subalterni che, dopo un ventennio di compressione, si riaffacciavano, potentemente, a reclamare diritti sociali, economici e politici. In questa guerra emergeva l’ansia di una giustizia dei poveri, gli oppressi, coloro che erano rimasti senza voce per troppo tempo; c’era la speranza del cambiamento politico e sociale. Questo fu «il vento del Nord», espressione oggi compromessa da un improprio uso leghista: e la «Resistenza tradita» significò la mancata realizzazione di quegli obiettivi sociali, come per decenni la Sinistra, quando faceva il suo mestiere, denunciò.

Infine, una guerra civile: italiani contro italiani, antifascisti contro fascisti, guerra di ideali e di interessi insieme, di valori e di opzioni politiche. Sottesa a questo scontro c’era la necessità di individuare e combattere i nemici anche tra i connazionali (di lingua e di suolo), ma non nel senso della nazione democratica, come scelta condivisa di valori e ideali.

Le tre guerre si mescolarono. Nella guerra civile vi era la guerra di classe, nella guerra nazionale la guerra civile: i fascisti difendevano interessi padronali, perlopiù, ed erano alleati (subordinati) dei tedeschi: dunque combattendo i fascisti si combatteva il padronato e il nazismo. E combattendo i padroni si combattevano i tedeschi e i fascisti; mentre combattendo contro l’invasore tedesco (dunque per la patria italiana) si combatteva contro il regime fascista, che invano tentava di rinascere dalle proprie ceneri, proprio grazie al poco disinteressato aiuto tedesco.

Più che alle pure pregevolissime ricerche storiche, ci sono dei testi d’altro genere a cui occorrerebbe sempre ritornare, per capire la nuda essenza del 25 Aprile, e la sua luminosa bellezza: le Lettere dei condannati a morte della Resistenza (esistono in commercio sia quelle della Resistenza italiana, sia quelle della Resistenza europea). Vi possiamo trovare quanto basta per non perdere di vista il senso profondo di quella guerra. Difficile resistere alla commozione davanti alla semplicità innocente di quei ragazzi e ragazze, donne e uomini maturi, che si sono battuti, immolati, o hanno sacrificato affetti, beni, tempo, carriera, vita, per difendere un bene che oggi è di nuovo a rischio: la libertà di tutti. Da questo punto di vista, con un pizzico di retorica, vorrei ribadire forte e chiaro che nessun “rovescismo” può cancellare il significato della Resistenza, atto davvero di liberazione, di creazione di un nuova Italia, che cercava di ribaltare tutto quanto, dal punto di vista prima di tutto etico, aveva significato il fascismo e il suo regime.

Se oggi possiamo discuterne liberamente come liberamente possiamo discutere e litigare di politica e di qualsiasi altro tema (almeno finché ce lo lasceranno fare i nuovi padroni, che gli spazi di libertà cercano diuturnamente di comprimere e limitare), lo dobbiamo anche e, almeno sul piano morale, innanzi tutto a quegli eroi perlopiù sconosciuti, eroi ora per caso, ora per scelta, ora per necessità, i cui nomi a stento si leggono sulle sbiadite targhe delle nostre strade, davanti alle quali le amministrazioni comunali o le locali sezioni e i nuovi circoli dell’Anpi mettono un fiore pietoso ad ogni ricorrenza del 25 Aprile, aggiungendo magari un tricolore, a sottolineare che la Repubblica è il frutto di quel sangue. Ad esse gettiamo un’occhiata distratta e rapida, specie quando quei fiori sono freschi: e la prima cosa che ci colpisce è la varietà di collocazione sociale, con una netta prevalenza dei ceti popolari: operaio, tipografo, tramviere, impiegato, studente, insegnante, ferroviere, artigiano, manovale… Il secondo elemento che balza all’occhio pur distratto, è l’età: ad essere «barbarmente trucidati» – come spesso si esprime il canonico stile marmoreo – sono fanciulli (dai 14 anni in su) o poco più che tali; gente semplice, umile, ma determinata e forte.

Davanti a quelle pietre, come davanti ai testi dei condannati, scritti sovente su materiali di fortuna, prima che il boia giungesse a prelevarli dalle celle per portarli al patibolo, abbiamo il dovere morale non soltanto del rispetto e della memoria solidale, ma quello civile, ciascuno nel suo ambito, di raccogliere il testimone – come i giovani che animano le sezioni dell’Anpi, oggi – per le nuove battaglie che premono, a cominciare dalla strenua difesa della Costituzione Repubblicana, sottoposta a un attacco incessante, tendenzialmente devastante. Al cospetto di quei martiri, e dinnanzi alla necessità di questa battaglia (che difende tutti, anche coloro che la pensano diversamente), nessuno potrà dire, domani, che non aveva capito.

Angelo d’Orsi

Ma che storia (M.Gramellini)

primopiano_10.jpgDopo le dimissioni di Ciampi, motivate da diplomatiche ragioni di stanchezza, anche Zagrebelsky, Gregoretti e Dacia Maraini meditano di lasciare il comitato dei garanti per le celebrazioni dell’Unità d’Italia, liberando quell’impotente consesso dal peso ingombrante della cultura. Perché a questo dovevano servire i festeggiamenti: a restituire agli italiani un minimo di conoscenza della propria storia. Ci si può dividere fra sabaudi e borbonici, unitari e federalisti, partigiani e repubblichini. Ma solo dopo aver saputo chi diavolo fossero tutti costoro. E cosa potrà mai saperne chi, come Bossi jr, afferma che «il tricolore identifica un sentimento di 50 anni fa», cioè gli Anni Sessanta, periodo di contestazioni studentesche nel quale il tricolore era semmai disprezzato come feticcio borghese? O quel sindaco veneto che per la festa della liberazione dal nazifascismo (1945) vorrebbe sostituire «Bella ciao» con le canzoni del Piave che gli alpini cantavano durante la prima guerra mondiale (1915-18)?

L’ignoranza è la dannazione d’Italia dal giorno della sua nascita. La novità è che adesso la si esibisce con orgoglio, recitando quattro frasi lette su un opuscolo. Come la storia di ogni altra nazione, la nostra ha ospitato orrori ed eroi, la deportazione dei briganti meridionali nelle fortezze alpine, ma anche il sacrificio di tanti giovani morti con l’Italia sulle labbra. Meriterebbero di essere ricordati con più rispetto: per la lingua e la memoria di un Paese che non farà mai i conti col suo passato fino a quando continuerà a oscillare fra il revisionismo e la retorica.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=41

“Cervarolo cosa?”

Copertina_Il primo.jpgPremessa

“Cervarolo cosa?” Erano i giorni dell’aprile 2008 quando,  tornato dal mio primo incontro con il Procuratore Militare di La Spezia, incontrai un paio di amici e parlando loro del lavoro di ricerca che stavo conducendo sulla strage, lessi nei loro occhi lo smarrimento di chi non capiva bene quale fosse l’oggetto del mio interesse. Certo sapevano di Cervarolo, almeno dalla toponomastica cittadina, ma per loro, persone pur colte e informate, non si andava oltre quei “martiri” che, appunto, la intitolazione di una grande strada in città indicava.

Forse questo libro nasce in quel momento, nell’accorgermi di come questa “strage dimenticata”  rimanesse quasi ignota agli stessi reggiani, abitanti di un territorio ancora ricco di tanti segni e della memoria di tante ferite ma ormai esposti, soprattutto per le giovani generazioni, al rischio di una perdita del proprio patrimonio storico. Una perdita che diventa, inesorabilmente, la breccia dove poi far passare altre storie, altri valori, quasi sempre in contrasto con quelli che fondano la nostra convivenza civile.

Un libro che nasce anche come riconoscimento della passione civile di un magistrato e del desiderio di verità e di giustizia di un’intera comunità, rappresentata da un’amico che porta il nome di quel ragazzo di diciassette anni caduto quel giorno nell’aia del suo paese.

In questo modo, unendo la storia alla memoria e riproponendo i tanti, sparsi materiali prodotti negli anni sulla vicenda, abbiamo voluto restituire una voce, una identità a quei “martiri” relegati, per troppo tempo, alla locale toponomastica.