Class action?

Un’azione collettiva (negli Stati Uniti d’America conosciuta come class action), è un’azione legale condotta da uno o più soggetti che, membri della classe, chiedono che la soluzione di una questione comune di fatto o di diritto avvenga con effetti super partes per tutti i componenti presenti e futuri della classe…Con l’azione collettiva si possono anche esercitare pretese risarcitorie, ad esempio nei casi di illecito plurioffensivo, ma lo strumento oltre alle funzioni di deterrenza realizza anche vantaggi di economia processuale e di riduzione della spesa pubblica.

Così da Wikipedia. E allora: perchè non avviare una class action con richiesta di risarcimento danni per tutto il fango (si fa per dire) che il vecchio satiro (ora anche isterico) ha buttato sul nostro povero paese, riducendolo al pantano che vediamo ogni giorno? Magari si potrebbe vincere almeno l’equivalente dell’ultimo jackpot, concedendo però-come è giusto-al vecchio satiro isterico di rivalersi sui milioni di elettori pirla che l’hanno votato.

Ora le scommesse sono aperte: quale sarà la prossima orrenda mossa del VSI (vecchio satiro isterico?), lascerà ancora liberi i suoi bravi (nel senso manzoniano)di colpire l’ennesimo don Abbondio? Chiuderà il web? Nominerà presidente della Camera il suo fornitore di Viagra? Si nominerà (anti)papa? Girerà vestito di bianco sulla sua “papi-mobile?” Attendiamo fiduciosi, certi che non ci deluderà (si fa per dire).

Un nonno di seconda mano…

Il vecchio nonno-satiro proclama di non aver mai organizzato festini, vero, ci pensavano i suoi prosseneti. Ma non è la solita penosa bugia che colpisce, ormai ci stupiremmo del contrario, ma è il media che il vecchio satiro usa. Uno che ha tutto, ma tutto, proprio tutto. Radio, tivu, video, giornali, internet, feltriebelpietro (scusate la parolaccia) dove ti va ad esternare le sue ballucce da marito colto con le braghe a mezz’asta? Su Chi. Un rotocalco da parrucchiere, da sciampiste. Che tristezza. Sì, lo so, il solerte Gianfilippo mi direbbe che il media scelto è studiato perchè quello è il target di riferimento, etc. E và bene, sarà così. Ma la tristezza rimane.

E se mi è consentito un discorso appena machista: uno che può spendere senza limiti, chi ti va a prendere? Una escort di Bari? Roba da vecchio cumenda che s’intrufolava nei camerini delle ballerine dell’avanspettacolo, come in tanti film di Totò e Peppino (a proposito stasera tutti a vedere Toto, Peppina e la malafemmina su rai3!). Ancora quell’Italia piccola e gretta, ipocrita e bigotta, con i preti grassi e ammiccanti, le mogli rassegnate e stuoli di fanciulle in attesa (allora per fame oggi per desiderio di fama).

Onassis quando volle scegliere le sue donne passò dalla Callas a Jacqueline Kennedy, questo vecchio satiro viagrato raspa su le fanciulline di gamba svelta che il primo traffichino gli passa? E che diamine, anche nel peccato ci vuole classe, signora mia! Almeno prenda esempio da quell’altro milord di Cuneo, tale geom.Briatore Flavio, un po’ grossier anche lui, se vogliamo, ma almeno alla sera usciva con Naomi (Campbell) altro che Noemi Cuccurullo (o come piffero si chiama…).

Quale spazzatura, quale disgusto, quale miseria

Da “Avvenire” di oggi:
Niente «silenzi di convenienza», parole appropriate
Caro Direttore,
è da un po’ di giorni che sento tanta amarezza nel mio animo, amarezza che a volte sfocia in rabbia. Sono un sacerdote e vostro abbonato da tanti anni, ma da sempre compero quotidianamente il giornale Avvenire. Vi ringrazio di tutto quello che fate perché si combatta e non ci si adatti alla cultura corrente, di massa, di profondo egoismo e di banalità sconcertante che si estende e domina cuori e menti di tanti giovani. Vi ringrazio delle vostre battaglie su tantissimi temi. Ma sono deluso dal vostro atteggiamento circa quello che da settimane riempie alcuni giornali: la vita privata del presidente del Consiglio. Quale spazzatura, quale disgusto, quale miseria. Aveva ragione la moglie dicendo «Aiutatelo, è ammalato». E lui ora non nega lo squallore, ma lo indica come performance, come capacità, come virtù… Afferma: «Non sono un santo e gli italiani mi vogliono così». Ma quale falsità! Tanta è la mia sofferenza per il vostro atteggiamento di silenzio, di attesa di verifiche certe,, di… come il Tg! Ma perché non una parola chiara su quello squallore? Perché anche i Vescovi non sono così chiari e precisi come su tanti altri temi di morale? Perché, senza condannare il peccatore, non si dice quasi nulla di questo peccato d’immoralità? E lui se ne fa un vanto! Quanta sofferenza, quanta amarezza nel vedervi così quasi servili, così poco decisi e precisi a condannare una moralità così squallida che purtroppo inficia menti e cuori di tante persone, di tanti giovani. Dov’è la parola chiara, precisa, puntuale che condanna? E questo atteggiamento di prudenza (che io definisco di convenienza), non c’è solo su atteggiamenti di morale sessuale ma anche del dovere di accoglienza delle persone che fuggono dall’inferno e chiedono aiuto. Dov’è la tolleranza cristiana? Né sul suo giornale né nelle parole di tanti Vescovi c’è stata una condanna precisa, chiara, evangelica. Solo il mio vescovo , il cardinale Dionigi Tettamanzi e i Vescovi lombardi sono stati precisi sul dovere dell’accogliere. E li ringrazio di cuore. Ma non certamente la Cei né il quotidiano Avvenire. C’è tanta amarezza in me. Grazie dell’ospitalità per questo sfogo e grazie se risponderà e pubblicherà.

don Angelo Gornati, Limbiate

Risponde il Direttore:
Caro don Angelo, la sua lettera è giunta sul mio tavolo lo stesso giorno in cui un grande quotidiano nazionale titolava in prima pagina: «Berlusconi, spuntano altre ragazze / e il giornale dei vescovi lo attacca». E anche ieri lo stesso giornale è tornato ad argomentare con solerzia ancora in prima pagina e sempre a partire da ciò che su Avvenire era stato pubblicato. Lei mi dice che è sgomento per il nostro silenzio, mentre altri, prendendo al volo le nostre parole, ci fanno addirittura gridare. A chi devo credere? Per come sono fatto, credo a lei, e cerco di capire che cosa mi vuol dire. Non mi costa farlo, e non mi costa immaginare che cosa passa per la mente dei nostri preti in una stagione in cui la scena pubblica offre spettacoli niente affatto confortanti. Sono loro in trincea e più di tutti sanno quanto costa rappresentare alla gente le esigenze della vita cristiana. Eppure, proprio perché mi immedesimo nella sua delusione, don Angelo, non posso rinunciare a dirle come vedo le cose. E cioè che Avvenire non è stato zitto. Ha parlato sul tema a più riprese: con un fondo di Rossana Sisti, con un secondo fondo di Gianfranco Marcelli, con un terzo intervento di Piero Chinellato, infine con una mia risposta collettiva ad alcune lettere, che è il testo da cui ha attinto Repubblica per fare il titolo di cui dicevo. Vede, per i media nazionali la posizione di Avvenire è inequivocabile, glielo posso assicurare. E lo stesso mi sento di dire per i nostri Vescovi: sia il presidente cardinal Bagnasco sia il segretario generale monsignor Crociata hanno colto le occasioni pastorali che si sono presentate per prendere posizione in modo netto sul piano dei contenuti come della prassi. Chiunque è stato raggiunto dai loro interventi ha capito quello che si doveva capire: alla comunità cristiana tocca tenere alto il contenuto della fede, e non cedere a compromessi. Avvenire ha dato puntualmente conto di entrambe le loro prese di posizione. Per questo, pur con tutto il garbo possibile, non me la sento di accogliere la sua accusa di «convenienza». Non solo mi sembra ingenerosa, ma anche ingiusta. Provi a immaginare che cosa avrebbe fatto lei se nel Comune in cui opera si fosse presentata una situazione moralmente critica come quella nazionale. Avrebbe parlato chiaro, da prete, o avrebbe organizzato la dissidenza? Immagino che avrebbe fatto fino in fondo il prete. Che è, se ci pensa bene, esattamente la linea seguita dai Vescovi. Quanto agli immigrati, lei loda il pronunciamento dell’episcopato lombardo e ringrazia il suo arcivescovo, il cardinale Tettamanzi. E fa bene. Se, poi, avesse tenuto presente quanto il presidente della Cei aveva articolatamente detto a proposito della politica migratoria in occasione dell’assemblea generale dei Vescovi, non avrebbe colto divaricazioni. La cultura è naturalmente la stessa e anche l’approccio pastorale alla questione è il medesimo. Avvenire è stato zitto anche su questa tematica? Davvero difficile da sostenere e da dimostrare. Forse non s’è pronunciato in termini ‘da scomunica’ verso quanti operano in direzione opposta all’accoglienza. Ma lei crede che le parole grosse aiutino a convincere chi condivide e asseconda certe battaglie della Lega? Si sbaglia, don Angelo. Noi, rispetto ai problemi che pone l’immigrazione, dobbiamo parlare e muoverci in maniera da non perdere per strada la nostra gente, e non regalarla a posizioni culturali di chiusura. Dobbiamo invece con lucidità e lungimiranza continuare a tessere quello spirito comunitario che, per natura sua, è anche e necessariamente inclusivo. La saluto.

Risvegli

“Le «rivelazioni» – non sappiamo quanto autentiche –, che si succedono, a disposizione di chi ha la curiosità di continuare a leggerle o ad ascoltarle, non aggiungono (probabilmente) nulla a uno scenario che già era apparso nella sua potenziale desolazione. Nel constatarlo non ci muove alcun moralismo, ma il desiderio forte e irrinunciabile che i nostri politici siamo sempre all’altezza del loro ruolo. Chiarezza per ora non è venuta, ed è un fatto evidentemente non apprezzabile, ma non è questo francamente quel che oggi ci preoccupa di più. Non ci piace che determinati comportamenti siano messi a confronto con un consenso – emergente dai sondaggi – che di per sé è qualcosa di inafferrabile, quasi che da questi possa venire l’avallo a scelte poco consone; così come non ci piace che sull’intera vertenza gravi il sospetto di una strumentalità mediatica, inevitabile forse ma non liberante, circa il punto di vista da cui si muovono le accuse. C’è davvero per la classe politica, ancor prima della decenza, un a priori etico che va salvaguardato sempre e in ogni caso? E che va fatto valere nelle situazioni ordinarie come in quelle straordinarie? Ecco, solo se una simile consapevolezza dovesse ad un certo punto emergere dal dibattito, si potrà allora dire che questa tornata ha paradossalmente avuto una sua, per quanto amara, utilità. Diversamente il Paese, che si è scoperto vieppiù attonito, potrebbe sentirsi anche leggermente raggirato.”

http://www.avvenire.it/Lettere/C+un+a+priori+etico+da+salvaguardare+sempre_200907240707197530000.htm

Il quotidano della CEI pare entrato in una fase di cauto risveglio. Pur con un linguaggio curiale, individua alcuni dei punti nevralgici della questione morale sul tappeto. Certo non possiamo pretendere la chiarezza da chi da secoli s’è scordato il precetto evangelico: “Il vostro parlare sia sì, sì, no,no. Tutto il resto appartiene al demonio” (o alla Sala Stampa vaticana…), però qualche domanda iniziano a porsela anche loro. Piuttosto che niente…

Santi, mignotte e baciapile

Sono una donna, non sono una santa“, precisava flautata Rosanna Fratello negli anni ’70 e noi ragazzini inesperti a chiederci quale mondo si nascondesse dietro a quel termine “donna”, che doveva essere promettente visto la sua contrapposizione alla santità.

Dopo un trentennio abbiamo un altro esponente del mondo dello spettacolo che ammette “non sono un santo..(sono un vecchio patetico satiro)“. Il cerchio si chiude: lontana la santità, prossima la umana concupiscenza. Le stelle sono lontane, rivoltoliamoci nella fanga. Cosa volete, siamo uomini. A capo. E tutti a ridere.

Sì, a ridere, perchè la cosa più rivoltante di questa vicenda penosa non sono i disperati tentativi di un ricco di opporsi alla morte, ben conscio che, per dirla all’inglese, la bara non ha le tasche, ma il parterre de merde che lo circonda. Ieri, in prima fila, chi gnignava alla battuta del vecchio satiro? Califano? Briatore? Rocco Siffredi? No. Roberto Formigoni. L’ipercattolico Formigoni, il ciellino di ghisa Formigoni, il defensor virginitatis Formigoni.

Esagero, ma quasi quasi preferisco il vecchio porcello all’ipocrita da sacrestia, il primo l’inferno ce l’ha già dentro di sè, il secondo tenterà fino all’ultimo di far fesso il Padre eterno. Ma tranquilli, anche se in gironi diversi (lussuriosi, ladri, traditori etc… il primo, ipocriti e spergiuri il secondo) si ritroveranno tutti e due e magari rideranno meno.

Come un videogioco…

Game over e si ricomincia! Come un videogioco ogni giorno ci gustiamo una nuova partita del successo del momento “Old pig chase” (Caccia al vecchio porcello). Continui colpi di scena, mignotte che imperversano scosciate e languide, avvocati ghignanti, giornalisti venduti. L’obiettivo è catturare il vecchio porcello ormai alle corde ma che continua, nonostante tutto, ad allungare le mani su qualunque cosa vivente di sesso femminile. Sembra spacciato. Cotto, finito. Game over!

Poi, il giorno dopo, si ricomincia. Nuove rivelazioni sempre più laide, di nuovo mignotte a volo radente, avvocati sempre più ghignanti (che si tratti di un crampo o di una paralisi facciale?), avvocati sempre più venduti e leccobardi e ancora…

Sull’altra consolle invece gira in parallelo un altro videogioco, se il primo è per le masse un po’ grossolane, questo, invece, è per palati raffinati, si chiama “History of P(s)D” (Storia del Partito|suicida|democratico). Il plot è più complicato: una tribù di excomunisti, exdemocristiani, ex socialisti, exexex.. si scanna allegramente in vista della riunione di autunno nei grandi pascoli. In quella tribù vige una simpatica usanza: si scannano i capi e capetti, mentre la gente “normale” sta chiusa fuori. Non ha diritto a dir nulla, se non alla fine ad accorrere presso strane costruzioni detti gazebo per sancire con un plebiscito la vittoria già decisa nella grande tenda chiusa.

I capi in lizza sono i più prestigiosi: Orso piacentino (che può vantare l’appoggio di Baffo del Salento), contro Puledro ferrarese (sconfitto nella battaglia della UE ma sostenuto dal mezzosangue Uolter l’americano). Una lotta fra titani.

Programma dell’Orso: “un riformismo democratico radicato nel territorio che si confronti con le esigenze della crescita che coniughi sviluppo e lavoro”.

Programma del Puledro:un riformismo democratico, radicato nel territorio, che si confronti con le esigenze della crescita che coniughi sviluppo e lavoro”.

Quelle due virgole rappresentano due mondi, due speranze, due possibilità, due p…

Ma anche per questo videogioco ogni giorno c’è una nuova avventura, una nuova svolta. Poi: “gameover” e si ricomincia.

Come si chiamava la consolle? Nintendo? Già, proprio n(on)intendo…..

Leader, giullari e impostori

Di Umberto Galimberti (sabato 18 luglio, Repubblica):

…perché, anche in presenza di comportamenti poco esemplari, il nostro Presidente del Consiglio non perde, se non marginalmente, seguito e consenso. La risposta è molto semplice, perché è un leader carismatico. “Carisma” è una parola che usiamo di frequente, senza mai indagarne l’essenza che, come scrive il neurolinguista americano Robert Dilts, consiste nella “Capacità di creare, attraverso gesti e parole, un mondo al quale le persone desiderino appartenere”. Di solito quel mondo non è reale, gli obiettivi del leader carismatico restano sempre: la sua affermazione, il suo successo, il suo profitto, ma colorati dell’illusione che questi obiettivi possono essere realizzati da tutti coloro che accettano di seguirlo. Lo psicanalista Manfred Kets de Vries autore del libro Leader, giullari e impostori (Raffaello Cortina) così descrive i tratti che connotano la componente carismatica di un leader. A suo dire: quando il sorriso diventa una maschera e l’ottimismo una condotta, quando la comunicazione ha i toni della sicurezza propria di chi non ha paura, di chi non vede ombre, tanto meno dentro di sé, quando la complessità è semplificata fino all’indicazione di una sola via perché altre non se ne danno, quando si è persuasi che ogni branco ha bisogno di un capo e le metafore tratte dal mondo animale diventano abituali, quando lo sguardo è sempre dall’alto, proiettato nel futuro perché il presente è sotto controllo, quando la dipendenza è ciò che soprattutto so esige dagli altri, e quando negli altri si vede solo il proprio riflesso, che è poi il riflesso di una luce senza ombra, allora siamo in presenza di un leader carismatico, il cui tratto peculiare è ben individuato da Gian Piero Quaglino nella sua prefazione al libro di Manfred Kets de Vries. Tutti i leader hanno un sogno, scrive Quaglino , capace di coinvolgere chi lo segue nel suo sogno, “a sognare si è in due: il capo e i suoi gregari, tutti ugualmente coinvolti e partecipi a credere, ad alimentare, ad inseguire il sogno, tutti che si rispecchiano in esso: un sogno a due, un bi-sogno”. Siccome è una costante della natura umana quella per cui metà del mondo si aspetta che qualcuno dica cosa deve fare e l’altra metà non vede l’ora di dirlo, il leader, che appartiene a questa seconda metà, per fare del sogno un bisogno coinvolgente in cui tutti si ritrovano, è costretto a spingere i confini del sogno fino a quel punto in cui i fatti danno l’impressione, non importa se illusoria, di andare incontro ai desideri, mentre la realtà si lascia contaminare dalla sua allucinazione. Un passo ancora e il sogno può spezzarsi, e allora tutti aprono gli occhi e, come annota Quaglino, alla delusione collettiva che sempre accompagna la fine di un sogno, quasi sempre si aggiunge la violenza distruttiva del leader carismatico, che così esprime la vendetta per un sogno tradito. Senza sogni la storia non cammina, ma anche nei sogni occorre una misura se si vuole evitare un risveglio da incubo.

Il nemico della stampa (U.Eco)

Riporto integralmente il pezzo di Umberto Eco, uscito oggi su L’Espresso:

 
Sarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l’età porta con sé, ma provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e con essa gran parte della stampa, è già malata. Nelle democrazie che definiremo ‘robuste’ non c’è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno viene in mente di limitarla.

Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario. Il problema italiano non è Silvio Berlusconi. La storia (vorrei dire da Catilina in avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie cortigiane, identificando il proprio piacere con l’interesse della comunità. È che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano, perché la società non glielo ha permesso. Quando la società glielo ha permesso, perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati fare?

Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva trovato un bell’impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale – e dico liberale. Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest’uomo aveva detto: “Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l’Italia, forse quest’Uomo troverà il modo di rimettere un po’ d’ordine”. Ecco, a instaurare il fascismo non è stata l’energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma l’indulgenza e la rilassatezza di quell’onorevole liberale (rappresentante esemplare di un Paese in crisi).

E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio mestiere. È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe accettato abbastanza tranquillamente – se il presidente della Repubblica non avesse alzato un sopracciglio – la mordacchia messa (per ora sperimentalmente) alla stampa. La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa – che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si dovrebbe.

Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de ‘L’espresso’ se sappiamo che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di Grande Fratello – e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo, perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?

Già, perché farlo? Il perché è molto semplice. Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto. Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all’epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe. Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell’antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento. Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli. Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l’onore dell’Università e in definitiva l’onore del Paese.

Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.

Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto